Girando fra mercatini e punti vendita avevo notato già un paio di anni fa la nascita del nuovo finto "made in Italy" del nostro mercato di vendita interno. Lo si percepisce con un minimo di esperienza, senza analisi merceologiche, ad istinto. Chi conosce il made in Italy lo vede ad occhio. Una buona massaia lo sa distinguere benissimo, lo dico senza troppa presunzione di onnipotenza.
In pratica il segmento di mercato che ancora resisteva, quello del prodotto italiano vero, un po' più costoso e di media qualità, ha cercato di reagire alla crisi proponendosi con un "noi siamo fatti in Italia, compra italiano". Ecco allora che mercantilisti e "figure” nostrane di varia natura, insieme a produttori e commercianti cinesi, visto il calo complessivo delle vendite, hanno subito pensato non di fare la solita semplice contraffazione, di cui il mercato è già saturo, bensì di creare nuovi “production & brand”, prodotti ordinari, comuni o di medio mercato, spacciandoli come "made in Italy". Sono, insomma, linee di produzione (ad esempio sportive) del tutto sconosciute che hanno però come forza di brand il "made in Italy".
La conseguenza è che, a cascata, seguirà che fra poco l'Italia si ritroverà sui mercati e nei negozi tanti prodotti "made in Italy" senza che però ci siano più le fabbriche e gli operai che li realizzano.
Cha fare? Una via di uscita è quella che mi sforzo di indicare da anni: è ora di smetterla di inseguire le eccellenze, il mito della qualità italiana, le spese folli per le promozioni del mito e le feste di promozione fini a se stesse, come unica soluzione. Una strategia cieca e folle che si continua a perseguire senza criteri.
Utilizziamo, invece, ed indirizziamo le risorse pubbliche per il rilancio della economia dal basso - promuovendo piccole imprese, imprese famigliari e giovani, volte a tramandare tradizioni, conoscenze e mestieri che vanno a scomparire, il vero "made in Italy" - non con forme di assistenzialismo ma con un vero processo di aiuto indiretto e di servizi che funzionano; con prestiti o fondi mirati, inserendo nel processo l'azionariato popolare con incentivi fiscali; scegliendo realtà locali e dando autonomia decisionale; che è poi il modo di promuovere sui nostri territori e nelle nostre realtà il federalismo democratico in opposizione alla elefantiasi del centralismo burocratico.
Riprendiamoci dal basso la produzione, il nostro vero saper fare, e la fatica che conosciamo e che è al centro di questo processo. Impariamo da subito ad utilizzare al meglio le risorse che abbiamo, a partire da coloro (e sono i migliori) che lasciamo che vadano via per disperazione. Iniziamo sul serio e con impegno ad abbandonare quella tendenza a voler fare tutto da soli (individualismo negativo) che ha distrutto le nostre migliori energie e ci ha fatto perdere tante preziose opportunità, specie al Sud. Cominciamo a metterci in rete: per trovare possibilità e capacità nascoste, o male utilizzate, che spesso sono solo dietro l'angolo.
Non piangiamo soltanto sullo sfascio delle nostre amministrazioni pubbliche: così come bisogna fare di più e meglio con meno nel pubblico, anche nel privato si può fare con meno molto, ma molto di più.