Pubblicato su politicadomani Num 88 - Febraio 2009

La crisi, senza pessimismo
Dal “capitalismo totale” all’economia sociale di mercato

di Maria Mezzina

Crisi, dal greco krìnō, significa separazione, scelta, giudizio. Non è quindi necessariamente negativa perché il passaggio può essere in meglio o in peggio; oppure, raggiunto il nuovo equilibrio, non si sta né meglio, né peggio.
Le notizie che arrivano dal fronte delle imprese e della occupazione parlano di migliaia di imprese che chiudono e di centinaia di migliaia di posti di lavoro che si perdono. È emergenza e c’è poco da stare allegri. Però, senza arrivare a quella ostentazione di ottimismo propria del ricco epulone lontano anni luce dai problemi di chi non ha più lavoro e neanche protezione sociale, gridare all’allarme provocando il panico non è n buon servizio. Non lo è per due ragioni: perché impedisce di cercare i rimedi e di prendere serenamente le distanze da comportamenti che sono stati i primi responsabili della crisi stessa e delle sue conseguenze immediate.
Vero è che è maggiormente sui deboli che si riversa l’impatto del cambiamento. Ma la speranza è, per dirla con il Presidente Napoletano, che “dalla crisi deve e può uscire un’Italia più giusta”. Non solo, ma deve uscire un sistema globale più giusto. Nella crisi, oltre agli Stati Uniti e all’Europa, c’è anche la Cina, la quale potrebbe uscirne, a detta del ministro Sacconi in una intervista sul Sole24Ore, “creando un modello previdenziale e di welfare, un sistema universale di servizio sanitario, in modo da liberare risorse per i consumi”. Che è poi anche quello che si dovrebbe fare negli Stati Uniti dove le potentissime lobby delle assicurazioni, complici i presidenti dell’ultimo quarto di secolo, hanno finora impedito che si creasse un sistema di sanità pubblica. Un cambiamento che sarebbe indubbiamente positivo per centinaia di milioni di ultimi e quasi ultimi della terra.
Ma soprattutto, negli Usa, come in Europa e in Italia, dove il servizio pubblico sanitario esiste ed è in gran parte efficiente, la rottura con il passato dovrebbe segnare il passaggio dalla “idolatria del profitto” - che ha generato mercati finanziari di una complessità tale e talmente avulsi dalla realtà da diventare autentici mostri -, alla economia sociale di mercato, dove il capitale è uno strumento al servizio dell’uomo e non viceversa.
Le ragioni profonde della crisi stanno nella avidità, nella cupidigia di avere più di quanto sia opportuno. Che è una categoria mentale, una ideologia, una filosofia e un modello di vita che ha impregnato gran parte della società occidentale e occidentalizzata. Occorre tornare, invece, ad uno stile di vita sobrio ed essenziale. Occorre tornare ad una concezione di mercato agganciato alla realtà del lavoro e della produzione, ad un “mercato delle economie” e non un “mercato delle finanze”.
Il fallimento a settembre scorso della Lehman Brothers non è un fallimento del capitalismo, come la caduta del muro di Berlino venti anni fa non lo è stata del comunismo, perché esistono molte forme di capitalismo come esistono molte forme di comunismo. Con la Lehman Brothers è caduta una concezione di “capitalismo totale” (così lo ha chiamato nel 2005 in un suo libro Jean Peyrelevade, già presidente e amministratore delegato del Credit Lyonnais), “franando con gran fracasso, sotto i nostri occhi”, dice l’economista MarcoVitale, che questa rovinosa caduta aveva previsto da tempo (“America punto e a capo - Una lettura non conformista della crisi dei mercati mobiliari”, 2002 Libri Scheiwiller).
Ciò di cui c’è bisogno è “un capitalismo al servizio dell’uomo e delle imprese che abbia al centro la persona umana e l’impresa innovatrice”, dice ancora Vitale. Compito dello Stato in questi frangenti è accompagnare il cambiamento (superare la crisi) adottando misure che rimettano in moto il processo deduttivo. Le misure del Governo (Tremonti, Brunetta, Sacconi, Scajola), almeno nelle intenzioni, stanno andando nella direzione giusta: non lasciarsi sfuggire di mano il debito pubblico, proteggere le famiglie, aiutare i più poveri, tutelare i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo. È un elenco di buoni propositi su alcuni dei quali, nella intervista, il ministro Sacconi fa delle precisazioni: il salvataggio delle banche deve assicurare finanziamenti alle imprese, dice il ministro. E, tuttavia, c’è “un progressivo inasprimento delle condizioni di concessione dei prestiti ed è in aumento le percentuale delle imprese che incontrano difficoltà a finanziarsi”, dice la Banca d’Italia (Bollettino economico, Gennaio 2009). Per i lavoratori rimasti senza lavoro il tempo fuori della produzione sarà impegnato nella formazione, precisa il ministro. È quanto stanno facendo in Germania, con la collaborazione delle imprese. Come faremo da noi? Sacconi spiega che la formazione sarà interna alle imprese e i soldi verranno dal Fondo Sociale Europeo, più 1,26 miliardi del Governo e gli 1,5 miliardi dei fondi per la formazione continua.
In Italia esistono, però, mali endemici, “piaghe bibliche”, le ha chiamate Vitale. Sono il costo della politica, la sua degenerazione, la malavita, la mancanza di giustizia, il debito pubblico, la distruzione del territorio e del paesaggio. Ci vuole “una dichiarazione di guerra e una chiamata alle armi” per affrontare cambiamenti radicali, afferma l’economista,  e indica alcune vie: aumentare le tasse ai ricchi e sui beni di lusso e trasformarle in servizi sociali per i più bisognosi; introdurre il quoziente famigliare; correggere gli squilibri fra le superpensioni e gli assegni da fame; combattere la corruzione pubblica, i “trivellatori di bilanci pubblici” e diminuire i costi della politica a cominciare dai finanziamenti ai partiti; modernizzare e responsabilizzare la pubblica amministrazione.
Sono vie di buon senso. Percorrerle richiede una grande volontà, una grande energia, un lavoro paziente di ricucitura.

 

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