Pubblicato su politicadomani Num 86 - Dicembre 2008

Alitalia
Always Late In Take off, Always Late In Arrival

Romeo Ciminello
Docente di Etica e Dottrina Sociale della Chiesa presso l’Università Gregoriana di Roma e Presidente del Comitato Promozione Etica

Tutti coloro che hanno avuto, come chi scrive, la necessità di volare Alitalia, conoscono lo sviluppo inglese dell’acronimo inserito nel titolo: Sempre in ritardo al decollo, sempre in ritardo in partenza. È stato il ritornello di ben quindici anni di viaggi aerei, ogni settimana tra Roma e Trieste. Una lunga serie di disagi che mi hanno segnato al punto che ora soffro della “Sindrome da aeroporto”, o da “ attesa di aeromobile”.
La realtà Alitalia non è che uno spaccato della più complessa realtà italiana, un po’ schizofrenica, che un momento si riferisce al mercato e un altro alla massa dei contribuenti italiani. Originata da una corretta impostazione del business, che si trasforma poi, ad opera di interessi tripartiti - politici, banche e sindacati - in una prassi consolidata: “privatizzazione dei profitti contro socializzazione delle perdite”. Mentre la CAI, decisa a rilevare gli asset di Alitalia, appare un’anomalia imprenditoriale e di mercato.
Tralasciamo qui i dettagli della vicenda per arrivare direttamente ad alcune considerazioni.
Mentre continua il tam-tam degli annunci sindacali, sappiamo che le 21 mila persone occupate (18 mila in Alitalia e 3 mila in Air One), diminuiranno di quasi 9 mila unità. Si tratta di esuberi effettivi, rispetto ai 3.650 indicati dal piano, visto che gli assunti nella Cai saranno 12.639. Sarà, dicono, un passaggio “indolore” da contrattazione collettiva, che tutela i lavoratori, a contrattazione individuale che premia la forza contrattuale dei contraenti.
La Cai ha offerto un miliardo di euro per rilevare gli asset di Alitalia, valutati da Banca Leonardo, valutatore indipendente scelto dal ministro dello sviluppo economico, e Rotschild, consulente del Commissario. Il pagamento è in più tranche: 100 milioni al 30 novembre, l’accollo dei debiti e il pagamento del saldo algebrico tra debiti e crediti. Il valore deciso dal Commissario è di 1 miliardo e 52 milioni; un partner straniero (Air France-KLM e Lufhansa sono i più accreditati) potrà entrare con una quota fino al 20% e il pagamento di un sovrapprezzo.
Ma qual’è il valore effettivo degli asset? E come è avvenuta la loro valutazione? Se pensiamo che per un advisor il valore degli slot era di 700 milioni e per un altro era zero (fallendo, Alitalia avrebbe perso gli slot), diviene difficile capire come si procede in questo campo. Inoltre, la valutazione è stata fatta da Banca Leonardo che è indipendente, come si dice in gergo. Ma da chi? Di Banca Leonardo, infatti, sono soci Ligresti, Benetton e Pirelli che fanno parte di Cai e che due consiglieri della banca, Carlo d’Urso e Fausto Marchionni, sono nel CdA di Cai. Inoltre per il partner estero, che entrerebbe con il 20% del capitale e il relativo sovrapprezzo, prezzo e sovrapprezzo potrebbero ridursi a spiccioli, tenuto conto del fatto che è in atto in Alitalia una riduzione di aerei, di rotte e di traffico.
La compagnia resterà italiana? È poco probabile. Perché la clausola che per cinque anni i soci potranno vendere a un partner straniero solo con un’autorizzazione del CdA presa a  maggioranza assoluta, con il mercato che si prospetta, in un momento di difficoltà in cui sia necessario un aumento di capitale e non si trovino partner italiani, è facilmente aggirabile.
È fuori gioco anche l’Antitrust: potrà intervenire su tariffe, qualità del servizio  e tutela dei diritti dei viaggiatori. Una misura non sufficiente quando, in realtà, il monopolio aereo sarà nelle mani di Cai.
Non ci sono garanzie: il capitale societario ammonta a 160 mila euro (10 mila euro per 16 soci). È previsto un aumento di capitale fino a 1,1 miliardi di euro (ancora tutti da versare), e l’impegno dei quattro soci più importanti (Immsi, Colaninno; Atlantia, Benetton; Intesa, Passera; Aponte, Gruppo Aponte) a sottoscrivere fino a 100 milioni ciascuno. In tutto 1,5 miliardi di promesse. Non è abbastanza, specie a fronte della aggressività delle compagnie Low cost e il rischio sempre presente di un’impennata del petrolio e del terrorismo.
Un pessimo affare per la collettività perché la bad company, l’attuale Alitalia, con i suoi debiti e le sue strutture obsolete, vanno a incidere sugli azionisti (lo Stato detiene il 49,9% della società) e su coloro che sono in possesso di obbligazioni convertibili, pari a 715 milioni di euro, difficili da incassare e non più convertibili come era al momento dell’emissione, destinate a diventare solo carta straccia.
L’Alitalia è uno spaccato della realtà italiana, dicevamo. Innanzitutto perché ancora una volta, come già per Telecom, Autostrade e FS, la privatizzazione serve alla politica per favorire i gruppi clientelari. Poi perché i cosiddetti manager di stato, che non sono manager di partecipazioni statali, ma sono istituzionalizzati, Colaninno, Ligresti, Benetton,… sono sempre i soliti nomi, a prescindere dai risultati, ricevono sempre lauti compensi. Uno per tutti, Cimoli: lascia nel 2004 le FS non una buona uscita di 6,7 milioni di euro; è nominato dal governo Berlusconi al vertice di Alitalia, dove riceve uno stipendio pari a sei volte un manager di Air France e il triplo di British Airways (ben più grandi di Alitalia); lascia la compagnia sull’orlo della bancarotta, e si attribuisce un premio di quasi 3 milioni di euro.
Come può una piccola impresa, sottocapitalizzata, come è attualmente la Cai, assumere gli obblighi di una compagnia che perde 250 milioni di euro ogni giorno? Si ripete la storia di Telecom (con l’onnipresente Colaninno), in cui, in un gioco di scatole cinesi, attraverso la società Olimpia, Marco Tronchetti Provera controlla il gigante Telecom Italia possedendo solo lo 0,11% del capitale votante.
Un intreccio perverso fra politica, sindacato e finanza dove il governo ha usato Alitalia a scopi clientelari, assumendo personale e manager graditi; i sindacati per affermare la loro influenza (18 mila dipendenti, 18 sigle sindacali, il controllo di un settore strategico, quello aereo, in grado di paralizzare l’intera nazione); le banche per trarne profitto senza rischiare. Tanto, è lo Stato (e cioè i cittadini) a pagare per gli stipendi elevati, gli esuberi di personale, le spese accessorie, la scarsa efficienza e la bassa produttività della compagnia di bandiera italiana. Una società che non deve fallire perché troppo grande è l’esposizione del sistema finanziario (Banca Intesa in testa), sindacale (non possono perdere la faccia e miglia di iscritti), il governo, che fa pagare ai cittadini il costo delle sue improvvide e sciagurate promesse. Costi quel che costi.
L’etica, in tutte queste manovre, è semplicemente rimasta fuori, in attesa che, finalmente, qualcuno inizi concretamente a mettere in campo strategie a salvaguardia del bene comune.

 

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