Pubblicato su politicadomani Num 85 - Novembre 2008

L’intervista
Viaggio attraverso l’esperienza di un imprenditore

Questa è una storia esemplare, di un imprenditore con la passione del vino e di una città a vocazione agricola della provincia di Roma: Velletri, una città, un po’ testarda e un po’ chiusa, che fa fatica a valorizzare quanto di meglio è in grado di dare

di Maria Mezzina

Ha 68 anni, è orgoglioso del lavoro che ha fatto ed è ancora sulla breccia Nicola Di Bari, imprenditore dell’agroalimentare aperto e cordiale. Vecchio stampo, vecchia tempra: solida, tenace, sanguigna. Dalla sua terra di origine, quel Sud dove anche suo padre e suo nonno si erano occupati di uva, di vigneti e di produzione di vino, è venuto a Velletri, dopo la laurea in enologia, con una borsa di studio, per fare uno stage presso la Co.Pro.Vi. (Consorzio Produttori Vini), la cantina sociale della città. Dopo soli sei mesi è stato assunto dalla cantina. Da allora la sua vicenda personale e professionale si è intrecciata con le vicende e lo sviluppo della città. La vecchia cantina sociale di dimensioni e orizzonti limitati, che negli anni a cavallo fra il ’50 e il ’60 produceva 5mila ettolitri di vino, sotto la sua guida si è trasformata in un’azienda che, nel 2005, ha prodotto 400mila ettolitri di vino e li ha esportati nei cinque continenti. Una media azienda del panorama imprenditoriale italiano, che sviluppa 25 milioni di euro di fatturato.

Quale ricetta per tale successo?
Volontà, tenacia, professionalità. Ma non solo. La chiave sta anche nella capacità di collaborare e nell’affetto che ciascuno prova per l’azienda mettendo a disposizione i suoi saperi: “fare squadra” in azienda è indispensabile per farla crescere. Il lavoro di pochi, pian piano, ha generato fiducia sul mercato e presso i produttori di uve e vitigni, che hanno scelto la cooperativa per la trasformazione in vini. Sono aumentati i soci, la quantità di uva e la produzione di vino. Essenziali i miglioramenti tecnologici e la trasparenza e l’affidabilità nel rapporto con i clienti i quali, appartenendo a culture e continenti diversi, devono essere seguiti e trattati con modalità ad essi congeniali.
In che modo il suo lavoro ha segnato l’habitat umano della città?
Mi attribuisco buona parte della conoscenza e dello sviluppo in campo enologico di questa città. Nei primi anni ’60, quando arrivai a Velletri, l’enologia non era ancora una scienza. I viticoltori facevano il vino secondo la tradizione e con metodi antichi, spesso per sentito dire. Il risultato era un prodotto non conservabile, che non faceva molta strada. Passavo allora molto tempo in laboratorio con i campioni d’uva del posto per capire come vendemmiare, raccogliere e trasformare. Ho anche tenuto molti corsi nelle campagne, organizzati dal MPI, ai quali partecipavano molti agricoltori.

Da qualche anno a Velletri si svolgono lezioni del corso di laurea in enologia della Università della Tuscia. Che differenza c’è fra gli alunni di allora e quelli di oggi?
Non chiamerei “alunni” quelli di prima. Non si trattava, allora, di una scuola vera e propria, ma di un aggiornamento per viticoltori: gente che coltivava i suoi vigneti e ne traeva il mantenimento per la propria famiglia. Oggi, chi frequenta i corsi di enologia all’università lo fa, nel migliore dei casi, per conseguire una specializzazione che gli darà reddito solo in futuro. Molti conseguono un titolo che metteranno nel cassetto. Altri frequentano l’università perché non c’è altro da fare.

Sono, forse, gli studi lontani dalla pratica quotidiana?
No. Se mai, sono cambiate le condizioni in cui si arriva all’università. Una volta si era ammessi solo dopo aver completato gli studi negli Istituti enologici che prevedevano un processo complessivo di studio e di pratica in una cantina, un’azienda agricola, un vigneto. Ora, chiunque può accedervi, ma geometri, ragionieri e liceali non hanno le necessarie competenze, né tre anni di corso possono sostituire sei anni di studi specifici. Diventa difficile, così, per l’azienda trovare persone competenti e capaci di utilizzare le più moderne tecnologie.

Non sarebbe allora opportuno offrire all’interno dell’azienda percorsi di specializzazione?
È proprio quello che accade. Ma è un investimento che grava tutto sull’azienda, e spesso è senza ritorno perché l’operaio specializzato che si è formato in azienda, contattato da un’altra azienda che gli offre anche solo cento euro in più, è pronto a lasciare. In questo campo c’è sempre bisogno di tecnici specializzati e dovrebbe essere compito delle istituzioni farsi carico di questa necessità.

È allora un problema di incontro fra domanda delle aziende e offerta dei corsi di formazione professionale della Regione?
Anche, ma non solo. Visto che noi rispondiamo sempre ai questionari che la Regione ci manda per avere un quadro delle competenze professionali richieste, è un problema di elaborazione di questi dati ed è un problema di conoscenza, di trasparenza e di contatti.

Quali sono state la maggiori difficoltà incontrate nel rapporto fra l’azienda, il territorio e le Istituzioni?
Lo sviluppo del Lazio poteva essere più ponderato. Nei primi anni ’60 la parola d’ordine era “produrre”. I viticoltori miravano alla quantità. C’era a Velletri un surplus di produzione, e non si riusciva a vendere. Abbiamo allora trasformato una grande quantità di prodotto e lo abbiamo collocato sul mercato, milioni di ettolitri di vino. Era però necessario produrre qualità, una esigenza molto sentita perché, nella grande quantità, la qualità diventava ancora più preziosa. È qui che la Regione ha sbagliato: se avesse puntato di più sulla qualità, non solo avrebbe potuto acquisire il mercato dei prodotti di punta, ma anche l’immagine. La gente non ci ha creduto: pur avendo dei rossi superlativi, li ha cambiati, inondando il mercato di trebbiano e malvasia. Per quella strada però, non era possibile aumentare il reddito. Qualcuno lo ha capito e ha cominciato a parlare di prodotti di qualità e a confrontarsi con chi li faceva. Però, ancora puntava sulla quantità. È stato difficile convincerli che per avere prodotti di punta era necessario preparare il vigneto con vitigni scelti - tanti ceppi per ettaro - e mantenere le rese fra i 70 e gli 80 quintali per ettaro: e cioè 1,5 kg di uva per ceppo al massimo. Solo da poco, grazie anche ai contributi europei, alcuni produttori hanno cominciato a produrre vini pregiati. Si trovano però a fare i conti con la recessione, l’economia che non va bene e la competitività delle altre regioni: infatti solo il 6 o il 7 per cento del consumo di vino è fatto di prodotti di alta qualità. In più il Lazio risente di una mancanza di immagine, che hanno invece regioni come il Piemonte e la Toscana. Non che manchino uve e vini pregiati, ma non sono conosciuti e quindi è difficile venderli.

Di chi la colpa di questa mancanza di immagine?
Un po’ di tutti. Dei produttori, che hanno venduto uve di alta qualità del Lazio ad altre regioni, continuando ad alimentare un mercato anonimo, senza avere così nessuna possibilità di emergere. Ancora oggi qui si vende l’uva ai commercianti dell’Emilia, che poi le vendono sfuse. Si fanno affari, ma poi tutto finisce lì e non si costruisce un avvenire. Con la cooperativa è stato fatto un lavoro faticoso di contatti personali, marchio, tecnologie avanzate, distribuzione. Tutto ciò richiede investimenti di capitali finanziari e umani e il sostegno dell’Europa e della Regione diventano essenziali. Sostegno che non è venuto, perché anche il costo della cantina che la Regione ha concesso è salato. Dal 1972 si è creato fra i soci un gruppo interessato a produrre uve pregiate. Un nostro marchio di qualità elevata è il “Riserva Velletri”. Ora, c’è molto prodotto di alta qualità ma non c’è mercato. È qui che diventa prezioso il lavoro della cooperativa e l’aiuto della Regione, che deve investire in immagine: il prodotto va proposto, va fatto girare; il consumatore va provocato perché richieda il vino di cui ha sentito parlare. Occorre lanciare messaggi, proporre e sostenere iniziative per valorizzare il prodotto e anche i produttori che così sono spinti a migliorare e a partecipare a questo sforzo comune.

Con la concorrenza delle altre Regioni e la crisi economica mondiale, quali mercati sono possibili?
Premesso che i vini pregiati del Lazio non hanno nulla da invidiare ad altri vini pregiati più noti, il mercato interno, per quanto sovraccarico, è ancora una possibilità: il nostro vino è sugli scaffali della grande distribuzione in tutte le regioni d’Italia. Più interessanti, invece, sono le aperture con l’estero, dove il consumo di vini è destinato a crescere. Ci sono all’estero meno pregiudizi: lì il vino è apprezzato per la sua qualità e il prezzo contenuto. I nostri vini sono presenti in molti paesi: se infatti in Italia della nostra “Riserva” vendiamo 100mila bottiglie, all’estero ne vendiamo 900mila. I più grandi mercati aperti sono nei paesi emergenti. In Russia e in Cina il consumo di vino, ora dello 0,0qualcosa per cento, è destinato a impennarsi. Con ambedue i paesi abbiamo buoni rapporti e una prospettiva di crescita che potrebbe dare una svolta all’azienda: siamo infatti in trattative per un aumento da uno a due milioni di bottiglie per la Russia e abbiamo contatti con distributori cinesi che coprono quasi tutto quell’immenso territorio.

Quale futuro, allora?
La mia parte attiva potrà durare ancora qualche anno, anche se si dice che chi tratta il vino non lo lascia mai. Certamente ci saranno e aumenteranno le difficoltà, ma si apriranno anche nuovi mercati e vi saranno in Europa nuovi sviluppi.

Una previsione rassicurante, frutto di una convinzione solidamente fondata su un lavoro tenace, complesso, continuo, sicuro. Come robusto, persistente e complesso è il gusto dell’ottimo rosso Riserva di Velletri che mi voluto donare.

 

Homepage

 

   
Num 85 Novembre 2008 | politicadomani.it