Pubblicato su politicadomani Num 83/84 - Settembre/Ottobre 2008

Scuola
L’intervista
La scuola italiana, il Mezzogiorno e l’Europa

Risponde il prof. Vincenzo Gerundino, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo G. Bertacchi di Busto Arsizio (VA). Testimonianza di un insegnante che dall’Alto Jonio Cosentino in Calabria, nel profondo Sud, e da una realtà di centri di poche migliaia di abitanti, segnati da difficoltà di ordine sociale, economico e lavorativo, è approdato ad una città di quasi 80mila residenti, in Lombardia, la regione più produttiva d’Italia

 

C’è nel Mezzogiorno un’alta percentuale di dispersione scolastica. Perché, secondo lei, tanti ragazzi del Sud abbandonano la scuola?
La causa principale è l’assenza delle famiglie che non seguono e non controllano i figli. Al Nord le famiglie sono più attente e si interessano di più della formazione scolastica dei figli. Molto dipende dal divario socio-economico esistente fra Nord e Sud, e dal conseguente divario culturale. Mancanza di lavoro; un solo genitore che lavora, quando lavora; assistenzialismo. Sono queste le cause - che hanno origini antiche - del disinteresse nei confronti della scuola. È diffusa la sfiducia nei confronti delle istituzioni scolastiche soprattutto perché dopo la scuola non ci sono prospettive di lavoro. Dopo il diploma o la laurea i giovani passano il loro tempo per strada, passeggiando. Ed è un dramma per le famiglie, dopo avere speso soldi ed energie per far studiare i figli, vederseli sempre attorno, disoccupati anche fino a 35 anni. Quando tutto va bene.

Quali allora i rimedi?
Innanzi tutto la scuola non deve essere autoreferenziale, non può chiudersi in sé stessa, ma deve aprirsi alla realtà e al territorio. E poi occorrerebbe sviluppare tutte quelle infrastrutture capaci di fare da ponte di collegamento fra la scuola e il lavoro. Ora il giovane che esce dalla scuola non ha prospettive perché al Sud manca tutto un tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese. Lo sviluppo imprenditoriale e produttivo del Sud, se mai è iniziato, è rimasto bloccato.

Ci sono responsabilità, secondo lei, anche da parte degli insegnanti, come è stato detto di recente?
No. La ragione principale della dispersione scolstica e del fallimento va ricercata nelle ragioni che le dicevo, non nella mancanza di professionalità da parte degli operatori scolastici. Anzi, le famiglie credono nell’insegnante ma non credono nello studio come punto di partenza e riferimento per il mondo del lavoro.

Quali sono le ragioni principali della “fuga dei cervelli”, una fuga che, insieme ad altri fattori, impoverisce ancora di più il Mezzogiorno?
In mancanza di prospettive lavorative dopo la scuola, è noto che al Sud (ma non solo) per avere un posto di lavoro ci si affida al discorso dello scambio. C’è chi lo accetta e si mette in lista di attesa. C’è chi lo rifiuta, fa le valige e parte. Se ne va altrove dove trova lavoro. Il Sud lo perde, e lui dopo vive solo di ricordi della sua terra.

Quale tipo di scuola è maggiormente frequentato nel Sud?
L’affluenza maggiore si ha negli istituti professionali. Non tanto per un indirizzo professionale specifico, ma perché è opinione comune che siano scuole più facili. In realtà neanche gli istituti professionali riescono a garantire un ingresso nel mondo del lavoro. Una eccezione sono gli istituti alberghieri che danno possibilità di inserimento ancora prima della acquisizione della qualifica professionale e già dal primo anno. In Calabria ce ne sono diversi: uno a Cosenza, uno a Castrovillari, ma anche altri.

Che cosa ci può dire dei corsi professionali regionali?
Si tratta di corsi che fanno formazione nel campo dell’artigianato - corsi per parrucchieri, per sarte, e altre forme di artigianato. Vengono frequentati, però solo in minima parte.

Come giudica il fatto che si possa assolvere l’obbligo scolastico fino a 16 frequentando i corsiprofessionali regionali?
L’innalzamento dell’obbligo scolastico è sempre positivo ed è un segno di civiltà. Dopo un corso regionale, però, occorre un investimento in proprio. Cosa che in genere è difficile. Leggi di sostegno, per esempio quelle sulla imprenditoria giovanile, non sono adeguatamente sfuttate, soprattutto per mancanza di informazione. Un altro problema è la mancanza di trasparenza nella partecipazione a questi corsi e nella gestione degli stessi. Spesso non arriva l’informazione, e i giovani non riescono a sapere quali sono i corsi e dove si svolgono. Una responsabilità degli organismi regionali e territoriali, dai quali dovrebbe partire la comunicazione.

La diminuzione di organico e l’innalzamento del numero di alunni per classe rischia di far sparire tante scuole. Quanto questo potrebbe influire sul livello di istruzione nel Sud?
Io mi auguro che il provvedimento non venga preso. Anche perché mi risulta che nei piccoli centri poco accessibili come le comunità montane - parlo della zona dell’Alto Jonio Cosentino che conosco meglio - ci sono scuole con pochi alunni. Mancando in quella zona strutture che permettono collegamenti e spostamenti, strade e servizi di autobus, poi questi ragazzini dove andrebbero a studiare? Verrebbero meno la scuola dell’infanzia, che ha la sua valenza formativa, la scuola primaria e la scuola media. I bambini dovrebbero spostarsi e lo spostamento è sempre a carico dei genitori perché non ci sono servizi. Non è pensabile che un bambino di cinque anni possa prendere l’autobus di linea, che eventualmente c’è, ma poi mancano gli orari e i collegamenti. È una questione geografica. Ci sono paesi da cui è difficile spostarsi, sia pure di 10 chilometri. Io spero che ci sia una riflessione approfondita su questi problemi e che ci sia un monitoraggio serio delle varie situazioni e non una legge che unifica tutta l’Italia, da Nord a Sud. So bene che mantenere una scuola con pochi bambini e una sola classe pesa sul bilancio dello Stato, ma qui bisogna verificare fino a che punto la scuola viene considerata come servizio essenziale per la formazione, la cultura, l’autonomia, e così ia. Cosa che forse sta sfuggendo un po’ a tutti, sia nella sfera politica che nella sfera sociale.

Crede possibile un ritorno all’analfabetismo? Potrebbe essere questo il risultato dell’azione combinata fra la perdita del valore di servizio essenziale della scuola e l’enfasi sulla “quadratura” dei conti per il bilancio dello Stato?
Indubbiamente questo pericolo c’è. Anche perché non c’è ancora un disegno e una strategia chiara sul ruolo e la funzione della scuola nel nostro paese. Basti bensare alle varie riforme e controriforme che si sono succedute negli ultimi anni. Sempre senza obiettivi e traguardi certi. È vero che i docenti, come è richiesto agli alunni, debbono avere una mentalità flessibile, tuttavia spesso i docenti vivono in una situazione anche di angoscia, una situazione in cui non possono programmare neanche il loro lavoro giornaliero. Il pericolo di un ritorno all’analfabetismo esiste ed è confermato dai dati europei.

Condivide l’analisi di PISA 2006 per cui risulta che il sistema scolastico italiano è in fondo alla classifica dei paesi europei?
Non del tutto. Quando si fanno certe indagini - che sono scientificamente certe e non discutibili - bisognerebbe, però, tenere presente come è strutturato il servizio scolastico dei diversi Paesi in cui è condotta l’indagine. Anche se nella media delle scuole europee il numero di alunni per classe è più alto rispetto al nostro, bisogna vedere, però, se siamo in un sistema inclusivo oppure se il sistema è selettivo. Prima di condurre i testi ed elaborare i dati occorrerebbe fare un’analisi dei diversi sistemi scolastici dell’UE. A me risulta che in alcuni paesi europei, in alcune scuole medie, c’è la presenza solo dei cosiddetti “bravi”. È chiaro, allora, che i risultati in queste classi sono migliori dei risultati delle classi del nostro sistema scolastico, che è un sistema inclusivo in cui c’è la presenza di alunni che sono anche fortemente in ritardo rispetto alla media.

Ci sono punti di eccellenza nel nostro sistema scolastico?
Certamente. Non viene quasi mai evidenziato che le nostre scuole primarie sono al quarto posto in Europa, fra le migliori 4 o 5 d’Europa. Questo significa che uno degli ultimi provvedimenti adottati [la presenza di più maestri in classe n.d.r.] ha portato risultati positivi. Ora, invece, stiamo assistendo a degli interventi che non so dove andranno a sfociare.

Come risponde alle accuse rivolte agli insegnanti di essere poco preparati?
È una riflessione da ombrellone estivo. Quello che manca in questi giudizi è la conoscenza dei diversi sistemi scolstici europei rispetto al sistema italiano, per poter fare un confronto. In un sistema inclusivo, qual è quello italiano, io debbo accettare tutti a scuola. Alle indagini vengono sottoposti tutti gli studenti, anche quelli meno bravi, e se ci sono degli assenti la prova deve essere ripetuta. Perché la scuola è una scuola di tutti e di ciascuno, come diceva Fioroni tempo fa e come diceva anche la Moratti nel suo disegno di riforma. Il mio non è un discorso di parte, ma un discorso di politica scolastica.

Che giudizio dà sulla chiusura delle SSIS (Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Superiore)?
Qui bisogna fare chiarezza. Le SSIS sono servite a dare un’abilitazione ai docenti. Già nella finanziaria del 2007 le graduatorie erano chiuse, ma le SSIS hanno continuato a funzionare. Questo ha creato un po’ di confusione e incomprensione. Senza nulla togliere ai corsi di laurea universitari volti all’insegnamento, un’abilitazione deve continuare ad esistere. Si sospenda pure per un anno per chiarire, ma un sistema che prevede scuole di specializzazione per l’insegnamento è sempre un punto positivo per la cosiddetta “qualità dell’offerta”.

 

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