Pubblicato su politicadomani Num 83/84 - Settembre/Ottobre 2008

Editoriale
Crisi finanziaria globale
Una nuova rotta per un mondo nuovo

di Marco Vitale

Scrivevo nel 2002 in “America punto e a capo. Una lettura non conformista della crisi dei mercati mobiliari”, una specie di “istant book” frutto, però, di lunghe osservazioni e riflessioni, che le crisi di Euron e soci erano solo il primo stadio di una crisi molto seria e che la struttura finanziaria americana doveva cambiare profondamente: “i tentativi di riparare il sistema con pochi interventi correttivi sono destinati a fallire”.
Una delle cause principali e strutturali della malattia è la posizione di potere abnorme conquistata dai CEO del big business, la “nuova aristocrazia” i cui compensi sono diventati di natura e proporzione tali che costituiscono ormai “un prelievo e non più un corrispettivo, e sono basati su una posizione di potere sottoposta a ben pochi controlli o bilanciamenti”. Essa stimola forme di prelievo che diventano, a loro volta, incentivi per nuove distorsioni ed errori o manipolazioni manageriali.
Le banche di investimento erano l’epicentro della crisi: “Quello che ancora non viene percepito con sufficiente forza - scrissi - è che il grave conflitto di interesse tra analisti e gestori è solo uno dei giganteschi conflitti di interessi che ruotano intorno a quei mostri che sono diventate le grandi banche d’affari. È questo mostro, nel suo insieme, che va ricondotto alla ragione democratica e che deve essere riregolamentato e, io credo, segmentato seriamente”.
Il sistema ha impedito la riregolamentazione, la segmentazione, il contenimento dei conflitti di interessi, la riconduzione alla ragione democratica della nuova avida “aristocrazia”. Ed allora ci ha pensato il mercato, alla sua maniera, brutalmente, facendo pagare un conto spropositato a tutti. È stato detto correttamente: questa non è la fine del mondo ma è la fine di un mondo.
Nel tracciare la nuova rotta nel nuovo mondo cerchiamo allora di fissare alcuni pilastri che possono aiutarci.
È necessario che gli uomini di buona volontà in USA, in Europa e negli altri continenti gettino ponti di comprensione reciproca e di lavoro comune, liberando il mondo dal talebanismo del mercato, per difendere il mercato. Finora il gigantismo ha fatto premio su ogni altra considerazione. Bisognava essere sempre più grandi per ottenere applausi, onori e denari. Questo è stato vero soprattutto nel campo bancario e finanziario dove abbiamo creato dei mostri ingestibili. Oggi l’epicentro della crisi è proprio in questi mostri, e si vede che avevano ragione i pochi grilli parlanti che mettevano in guardia contro la crescita dimensionale fine a se stessa e che sottolineavano il rischio che ciò facesse lievitare il livello di irresponsabilità dei vertici, il loro, come si dice in gergo, “moral hazard”. In altri campi industriali ed informatici la corsa alle grandi dimensioni ha invece creato degli oligopoli ristretti, quasi monopolistici (come ad esempio nel campo degli acciai) che fanno quello che i monopoli hanno sempre fatto: alzano i prezzi e strozzano la gente. La crisi finanziaria americana è la crisi dell’intera concezione economica che ha dominato l’economia mondiale negli ultimi venti anni, sviluppata negli USA e diffusa nel mondo dai neoconservatori americani e dalle banche d’investimento statunitensi.
Occorrono più diritto, più regole, anzi più principi, più responsabilità diffuse, più rispetto del mercato, occorre tagliare le unghie ai ladri, mandarli in prigione, ricostruire economie efficienti ma giuste, severe ma solidali ed è necessario avviare una globalizzazione al servizio dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini e non solo dei potenti ricchi ed irridenti che hanno contrassegnato la non felice stagione che si sta chiudendo.
Bisogna prepararci ed attrezzarci strategicamente ed operativamente a una crisi lunga e travagliata, a mutamenti di usi, costumi, consumi, mercati, a costo del denaro elevato, a vecchi mercati languenti ed a nuovi mercati vivaci. Tutte le strategie di tutte le imprese sono e saranno toccare dalla crisi e sono e saranno chiamate ad una importante opera di riorientamento. L’economia è unitaria e una crisi di questa portata si espande, per cerchi concentrici e con tempi diversi, su tutta l’economia.
La natura della crisi è tale che essa non solo avrà effetti importanti sull’economia reale ma avrà effetti geopolitici. Il potere finanziario si sposterà, almeno in parte, da paesi che hanno basato il loro sviluppo sul debito a paesi dove c’è il capitale vero, quello basato sul risparmio, sia esso frutto di posizioni di rendita (paesi petroliferi) che di forsennato lavoro (Cina).
Su sta consolidando, dalla crisi, l’immagine di un mondo più articolato e con molteplici motori di sviluppo: Cina, India, Brasile e altri paesi minori tengono e si sviluppano. E questa è una notizia molto buona per tutti. Sulla cenere di vecchi equilibri instabili caduti in frantumi si vanno creando nuovi soggetti e nuovi equilibri.
È su questi punti di riferimento che dobbiamo collocare la posizione delle imprese e dell’economia italiana per ricercare nuove strategie.
La innegabile ripresa di competitività dell’industria italiana di inizio anno ha dovuto fare i conti con tre cause internazionali, alcune prevedibili ma non nell’intensità che hanno raggiunto:

  • l’esplosione del prezzo del petrolio e quindi di tutta la componente energetica e di altri materiali fondamentali per la nostra industria (soprattutto l’acciaio che tanto grava sull’industria meccanica, uno dei nostri punti forti);
  • la svalutazione del dollaro e l’eccessiva valutazione dell’euro soprattutto nei confronti delle monete dei più forti paesi asiatici che colpisce soprattutto il tessile abbigliamento (un altro dei nostri punti forti);
  • la crisi finanziaria e bancaria con epicentro negli USA ma i cui effetti dirompenti si estendono, in tutto il mondo e soprattutto in Europa, con conseguente aumento del costo del denaro, restrizioni creditizie diffuse e crescita delle incertezze.

A queste si è aggiunta la caduta dei consumi interni, forse esagerata da una percezione eccessivamente pessimistica della crisi e dal  martellamento supernegativo che viene dalla maggior parte della stampa. Poco possono, soprattutto a breve, il governo ed il popolo italiano contro queste tre formidabili cause internazionali di crisi. La consapevolezza di questa debolezza non deve, però, giustificare esagerate paure e pessimismo.
L’industria italiana ha saputo fare prima una ristrutturazione di processo importante, poi, più recentemente, una ristrutturazione di prodotto altrettanto importante. Ora è necessario impegnarci in una nuova strategia, insieme di difesa e di attacco, capace di affrontare il nuovo difficile e pericoloso scenario mondiale, ma insieme di coglierne le nuove opportunità che sono altrettanto grandi. Si tratta di ristrutturazioni di sistema e di settore. Non basta più fare bene le cose singolarmente, bisogna farle bene insieme. È ancora più difficile, ma abbiamo le premesse per farcela. La capacità di fare del popolo italiano ha superato tanti momenti difficili. Supererà anche questo, purché non si lasci prendere dallo scoramento.

 

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