Pubblicato su politicadomani Num 81/82 - Giugno/Luglio 2008

Editoriale
Il Pil, lo sviluppo e l'Italia

di Marco Vitale
(Liberamente tratto da un articolo scritto per Economia italiana, 16 Giugno 2008 - A cura di Maria Mezzina)

"Non poteva esserci partita per la Coppa America tra la Valencia di oggi (città lanciatissima) e la Napoli di oggi (città imbalsamata)", dice il Prof. Marco Vitale parlando "degli sviluppi bellissimi di tante città europee dopo la crisi delle attività manifatturiere tradizionali" e della strada " ancora lunga ed impervia" che dobbiamo percorrere " perché la distruzione che abbiamo realizzato negli ultimi quarant'anni del patrimonio culturale e paesaggistico delle nostre città è immenso". Il fatto è, per dirla con Guido Piovene, che "L'Italia è sempre una paese confuso, in cui quasi nulla appare con la sua vera faccia. Ma un viaggio per l'Italia ci porta davanti alla società più mobile, più fluida e più distruttrice d'Europa… In nessun altro paese sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne secondo gli interessi e i capricci del giorno" (1956, "Viaggio in Italia").
Per seguire il feticcio del Pil, oltre a scavare un baratro fra la popolazione (ricchi e ricchissimi che detengono l'80% delle ricchezze e una massa di gente poverissima, povera e che non ce la fa), abbiamo creato mostri e un ambiente invivibile.
Scrive Vitale: "Ricordo l'affermazione dell'amico economista Sylos Labini che diceva di aver stimato che il reddito medio del quartiere Zen di Palermo era superiore a quello di Siena, ma lui preferiva vivere a Siena. Ed io aggiunsi che se la Sicilia si fosse riempita di fabbriche di lupara il PIL sarebbe fortemente cresciuto, ma la qualità della vita in Sicilia sarebbe peggiorata".
Il fatto è che esiste una sostanziale differenza fra sviluppo (development) e crescita economica (growth). "Per la nostra cultura, dominata dal feticcio del PIL, sviluppo è solo l'aumento del PIL, cioè, in sostanza, l'aumento dei beni materiali disponibili e commercializzati più il costo di produzione dei servizi della pubblica amministrazione (a prescindere dalla loro qualità)".
Vitale ricorda il significato dato allo sviluppo da Paolo VI nella prima parte della Populorum Progressio (1967):
"Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo". "Lo sviluppo correttamente inteso supera la tradizionale dicotomia tra avere ed essere. "Si tratta di avere di più per essere di più"".
Egli ricorda anche, sul piano politico, il discorso di Robert Kennedy agli studenti dell'Università del Kansas, nel 1968:
"Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo dirci orgogliosi di essere americani. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria, la pubblicità delle sigarette. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende la ricerca per disseminare la peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e aumenta quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari".
Era il 1968 e da allora sono passati quarant'anni. Il mondo ha preso un'altra strada. L'Italia ha preso un'altra strada, come il resto del mondo.
È negli anni '90 che il "feticcio del Pil" comincia a cadere dal suo piedistallo: quando il premio Nobel per l'economia Amartya Sen e l'economista pakistano sviluppano il concetto di Indice di Sviluppo Umano (ISU. HDI, Human Development Index, nella terminologia internazionale). "Lo sviluppo umano è il processo che permette alle persone di ampliare le proprie gamme di scelte. Il reddito è una di queste scelte, ma non rappresenta la somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre, la libertà d'azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti", chiariscono le Nazioni Unite (Rapporto UNDP n. 3), che ogni anno pubblicano una classifica dei paesi del mondo. Lo scorso novembre l'Italia è risultata ventesima, in calo di tre posizioni rispetto all'anno precedente.
Non è sviluppo la disponibilità di mezzi finanziari. Vitale spiega, nel suo lungo articolo:
"Questa demenziale concezione (della quale molti economisti e scuole economiche sono responsabili) è una delle concause più forti della triste situazione del Mezzogiorno. Quando nel 1992 si chiuse il rubinetto delle erogazioni finanziarie dello Stato, molte città e territori del Mezzogiorno si misero in moto ed incominciarono dei progressi effettivi verso uno sviluppo reale (come Torino dopo la benefica crisi della Fiat). Ma pochi anni dopo incominciarono ad arrivare nuovi fondi dall'Europa ed un intero popolo ricominciò a dedicare il suo non modesto ingegno a cercare le vie per intercettare quei fondi. Ora nel periodo 2007-2013 oltre 100 miliardi di euro si stanno riversando sul Mezzogiorno, e chi conosce un po' le cose ha ragione di temere, come io temo, che questi fondi rappresentino l'ultimo metro di corda per l'impiccato".
Occorre, quindi, ben altro. Per uno sviluppo autentico occorre puntare sui tre beni propri di una comunità: il territorio, la popolazione e la cultura della popolazione (Hugues de Varine, grande teorico francese e internazionale degli sviluppi locali). Non basta, però, dice Vitale, e indica in questo "altro" anche il ruolo essenziale degli "enti locali, ed in primo luogo dei comuni, singoli o, ancor più, in forma associata o aggregata e dei loro amministratori". E aggiunge: "Sono loro che presidiano la qualità del territorio. Sono loro che devono trovare un fruttuoso equilibrio tra le spinte del mercato ed il dovere, costituzionalmente fondato dall'Art. 9 della Costituzione, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Negli ultimi anni questo equilibrio, in molti luoghi anche prestigiosi, è stato violentato. Una importante sentenza della Corte Costituzionale (n. 367/2007) ha deciso che la tutela del paesaggio costituisce un valore primario e assoluto e rientra nella competenza esclusiva dello Stato".

 

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