Pubblicato su politicadomani Num 81/82 - Giugno/Luglio 2008

Crisi energetica
Centrali nucleari: il caso Francia
Sicurezza ed economicità sono i due fattori che spingerebbero a scegliere il nucleare come alternativa al petrolio per produrre energia e combattere l'effetto serra. Ma è veramente così? Il caso Francia insegna di no

 

Emissioni radioattive e scorie nucleari sono "i problemi" dell'energia nucleare. A questi va aggiunto il pericolo terroristi che avrebbero facile accesso al materiale fissile negli spostamenti da un luogo all'altro, e alla tecnologia degli impianti che, per essere efficaci, devono essere semplici e diffusi. Dei piccoli o grandi incidenti che avvengono nelle centrali nucleari e della immissione nell'ambiente di sostanze radioattive se ne ha notizia a intervalli più o meno frequenti e ben poco si sa del tipo di centrali che si vogliono costruire, del perché delle scelte, dei risultati finora ottenuti e degli studi delle commissioni di esperti che dovrebbero indirizzare le decisioni dei governi.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti e della Francia.
Lo smaltimento delle scorie nucleari è di gran lunga il problema maggiore. Seppellirle in qualche posto sicuro è un sistema lento, politicamente doloroso e inadeguato. Negli Usa il sito di stoccaggio sotto il monte Yucca in Nevada, nonostante sia recente e costruito secondo i piani previsti, rischia di essere già troppo piccolo.
In Francia la soluzione al problema sembrava a portata di mano: riciclare le scorie nucleari per ricavarne plutonio fresco da reimmettere dentro i reattori. Ampliare fino a 100 volte la capacità dei depositi sotto il monte Yucca e utilizzarli fino al 2050, era la prospettiva.
Non è andata proprio così perché per "riciclare" le scorie radioattive occorrono reattori (breeder reactor) capaci di scindere atomi particolarmente resistenti. I breeder reactor però non sono ancora abbastanza affidabili per la produzione commerciale.
Per estrarre il plutonio dalle scorie nucleari è necessario un complesso di laboratori e unità di produzione di energia atomica grande quanto l'intera industria automobilistica statunitense, con contenitori grandi come un transatlantico, e protezioni di vetro spessissimo al di qua delle quali operano tecnici che azionano robot. Perché il materiale trattato è intensamente radioattivo e volatile. Lo dice Bertrand Goldsmith, importante chimico francese che ha lavorato con Glenn Seaborg, lo scienziato che ha scoperto il plutonio.
Il processo tecnicamente funziona. Tuttavia, dal punto di vista della sicurezza è un disastro: negli Usa, in Russia e in Gran Bretagna i versamenti di materiali radioattivi e le esplosioni sono stati numerosi. Nell'aprile del 2005 è stato chiuso l'impianto di Sellafield in Gran Bretagna, dopo che per nove mesi aveva riversato in mare 83 metri cubi di liquido altamente radioattivo, contaminando le coste.
La trasformazione delle scorie nucleari dà origine al 95% di uranio e poco più dell'1% di plutonio. L'uranio è però molto più costoso di quello estratto e non conviene. Il plutonio, unito all'uranio, viene poi riutilizzato per produrre altra energia. Rimangono i residui altamente radioattivi che vanno protetti con un processo di "vitrificazione": sono incapsulati in balle di vetro liquefatto a 1150 °C, in modo da isolare il contenuto radioattivo dal resto dell'ambiente, e rimangono lì per migliaia di anni. La soluzione, apparentemente geniale, presenta problemi di sicurezza perché il materiale radioattivo deve essere trasportato da un luogo a un altro, attraversando campagne e centri abitati. Inoltre, la tecnologia non è ancora affidabile: nel 1998 il super-reattore francese Superphoenix, in seguito a numerosi incidenti è stato chiuso, dopo soli 174 giorni di lavoro a pieno regime, 1250 MW, secondo il progetto, e dopo essere costato 9 miliardi di euro.
La Francia ha allora trovato nel MOX un nuovo "carburante nucleare", un miscuglio di 8% di plutonio e 92% di uranio impoverito. Oggi il MOX soddisfa il 10% delle esigenze energetiche francesi ed è usato in Belgio, Germania, Giappone e Svizzera. Ma anche qui ci sono seri problemi: il MOX inerte contiene da 4 a 5 volte più plutonio e c'è il rischio di improvvise e accidentali reazioni a catena. È inoltre tre volte più caldo dell'uranio inerte e quindi meno adatto ad essere conservato sotto terra. Va infatti raffreddato per 150 anni prima di poter essere seppellito sotto il monte Yucca (rapporto presentato al Primo Ministro francese nel 2000). Intanto si sta accumulando rapidamente nei depositi di raffreddamento di La Hague in Normandia: oltre 600 tonnellate di MOX inerte che crescono di 100 tonnellate all'anno. Inutile insistere con il MOX finché non c'è un sistema di smaltimento migliore, dice Evelyn Bertel della Organizzazione per la Cooperazione Economica e l'Agenzia per lo Sviluppo dell'Energia Nucleare di Parigi.
Interessante il fatto che, dopo un lungo periodo di ridotta attività, ultimamente gli impianti (e il dibattito) hanno ripreso vigore. È accaduto dopo l'annuncio di Bush di voler utilizzare il sistema francese per produrre energia nucleare, dato per radio, un sabato mattina, agli americani con queste parole: la trasformazione dei rifiuti atomici "ci permette di produrre più energia riducendo drammaticamente la quantità di scorie nucleari". Una frase che ha mobilitato le lobby statunitensi interessate a costruire centrali nucleari negli Usa.
Ma finché i breeder reactor non si moltiplicano e non diventano commerciali, i residui nucleari di scarto non cesseranno di esistere: saranno solo più caldi e più difficili da trattare.

[Liberamente tratto da "Nuclear Wasteland", di Peter Fairley, IEEE Spectrum]

 

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