Pubblicato su politicadomani Num 79 - Aprile 2008

Rischio derivati
Gli Usa di fronte allo spettro di una crisi economico-finanziaria globale
I "subprime loans" sono un argomento complesso. Ancora più complesso è darne una "vulgata" comprensibile ma non risibile. Dietro questi loans si nasconde una mole di algoritmi matematici che potrebbero far sorridere chi con la matematica ha qualche domestichezza. Il dramma è che chi li usa o non ha conoscenze matematiche adeguate o è talmente presuntuoso che non sa riflettere sui sistemi più appropriati da adottare. I cosiddetti "derivatives" sono una sorta di foglia di fico, non appropriata a valutare il rischio, bensì solo ad illudersi di ben gestirlo, ove sia stato adeguatamente valutato

di Paolo Tomasi

Da tempo ormai siamo inondati, da giornali e TV, riguardo la crisi dei cosiddetti "subprime loans" che stanno pesantemente scuotendo gli Stati Uniti e che, si teme, allargheranno i loro effetti micidiali anche in altre aree del globo. Ma cosa sono questi "subprime loans"? Come si sono formati? Che dimensioni hanno per scatenare tali perversi e profondi effetti? Quali le ragioni che ne hanno consentito simile crescita smisurata? Infine, quali rischi potremmo correre anche noi? Domande cui, con pazienza, cercheremo di dare semplici e, si spera, esaustive risposte.
Iniziamo dunque.

Supponiamo che una banca commerciale qualsiasi abbia prestato una somma diciamo di 1.000 dollari ad un cittadino qualsiasi. È bene subito precisare che le cosiddette banche commerciali sono quelle che hanno rapporti "diretti" con la clientela diffusa ("i correntisti"). Poi ci sono le Banche d'Investimento, le cosiddette Banche d'Affari, quelle che si occupano della Gestione di Fondi ("Assets Management"). Tutte banche, queste ultime, che non hanno rapporti "diretti" con i privati cittadini, ma che possono comunque risultare coinvolte, come in realtà è successo negli USA e vedremo il perché. Tornando all'esempio, la banca presta detta somma al cittadino X per consentirgli di acquistare "a debito" un qualsiasi bene Y, finanziandolo. I cosiddetti "loans" sono appunto mutui e finanziamenti che la banca iscrive tra i propri crediti (quanto cioè le verrebbe rimborsato). Contestualmente, la stessa banca iscrive un debito, pari alla somma prestata, in quanto, se non attinge dette somme da capitali di proprietà (circostanza estremamente rara) si fa prestare detto importo sia dai propri, ignari, correntisti, sia da altre banche (prestiti interbancari). Di norma, in Italia ed in Europa, gli importi prestati sono valutati sulla base del rischio finale di chi ottiene il prestito e sono richieste, a tutela del rischio bancario, adeguate garanzie, quali ipoteche, gravami diversi, fideiussioni, ecc... I mutui "subprime", invece, sono definiti tali perché non sono tutelati da garanzie. In altre parole, il rischio dell'operazione finanziaria in questione viene ribaltato tal quale sulla stessa banca e su chi, come detto, le ha prestato i medesimi importi.

Per non lasciare fluttuare liberamente a proprio carico detti rischi, la medesima banca che concede il prestito si rivolge ad altri intermediari finanziari (nel caso in questione, alcune banche d'affari) che emettono i cosiddetti "credit derivatives swaps". Questi, in parole semplici, sono una sorta di polizze assicurative, ritenute atte a proteggere dal rischio di insolvenza dei debitori, ribaltando la gestione del rischio su formule matematiche a carico di altri attori finanziari (che però non sono a conoscenza del reale valore del rischio). Sui cosiddetti derivati ci sarebbe molto da dire. Oggetto anche di premi Nobel per i loro contenuti innovativi, sono in realtà complicate formule matematiche, da usare con cautela e da controbilanciare con efficacia, al fine di non lasciare lati scoperti.
Come si vede, la semplice erogazione di un finanziamento attiva una lunghissima catena di attori, tutti coinvolti a diverso titolo nella gestione del singolo rischio, ma estranei ad una valutazione "primaria dello stesso": se cioè sia valsa la pena di correre quel rischio. Quindi, se il debitore finale (o iniziale che si voglia) non onorasse il suo debito, detto rischio (e la perdita del credito della banca iniziale) si ripercuoterebbe con effetto "domino" su tutta la catena degli attori finanziari connessi, senza perdonare nessuno.

Guarda caso, negli Stati Uniti in questi giorni è arrivata in stato di grave insolvenza la Bearn Stearns, una gloriosa banca d'affari specializzata nell'emissione di derivati a protezione dei rischi succitati che, evidentemente, si era lasciata troppo "scoperta" nella gestione del rischio. Solo l'intervento della Federal Reserve Dept. (omologa della nostra Banca Centrale) ha impedito il definitivo fallimento, imponendo alla JP Morgan (finanziata al riguardo dalla stessa FED) di raccogliere quanto rimasto nella Bearn Stearns e mantenere in vita la medesima banca d'affari. Ma ciò non ha impedito forti scossoni in altre blasonate banche d'affari USA, quali la Lehman Brothers per non citarne altre, sino alla svizzera UBS. Negli Stati Uniti i cosiddetti "subprime loans" sono valutati in circa 5 milioni di operazioni finanziarie, con possibili perdite per oltre 1.000 miliardi di dollari, tali da far affermare che questa crisi finanziaria sia quella peggiore, dal dopoguerra ad oggi.
Ma quanto successo non è una novità: tutti ricordiamo la crisi, sempre ad "effetto domino" delle "savings banks", le Casse di Risparmio USA che il Presidente Reagan riuscì ad arginare (con una perdita pubblica, allora, di almeno 500 miliardi di dollari).
La storia si ripete allora? Sembra proprio di sì.

Ci sono almeno tre ordini di motivi, di gravità crescente, perché ciò sia avvenuto (si sia ripetuto) e che possiamo semplificare come segue:
- la smodata abitudine al "consumismo" del cittadino americano, orientato a spendere senza prima farsi bene i conti in tasca, a differenza di quanto avviene in Europa ed in Italia. Anzi è consueto negli Usa vedere i cittadini maneggiare più carte di credito, senza che ci si domandi se si sia in grado di ben gestirle, né "chi" gliele avrebbe concesse e con quali garanzie;
- l'apparentemente facile e, a questo punto irresponsabile, gestione del credito da parte delle banche statunitensi, propense a minimizzare il rischio valutando in modo spropositato l'ombrello offerto dai derivati. Protezione, questa, tutta da valutare, come si è visto;
- infine, e ciò è più grave, l'assenza di adeguati controlli centrali sulle banche da parte di istituzioni finanziarie indipendenti, come avviene in Europa ed in Italia, in grado di "bloccare" la generosa esplosione del credito.
Diversamente, in Europa è attivo il cosiddetto Accordo di Basilea che ribalta sulla banca emittente il rischio sostanziale del richiedente del mutuo stesso, impedendo quindi l'effetto domino di cui si è detto).
La colpa dei mancati o non adeguati controlli va cercata nella gestione della Federal Reserve e nella gestione politica del presidente Bush che, nonostante alcuni scandali finanziari rilevanti - basti ricordare la Enron - non ha obbligato le istituzioni ad adeguare la rete di controlli. Inoltre, lo stesso Bush, in nome del liberismo e in ossequio alla "libertà del mercato", non avrebbe adottato misure di sviluppo economico che sarebbero state in grado di intervenire sui prezzi del mercato immobiliare e sulla crescita della nazione, misure che avrebbero, di certo, limitato tali effetti.
Viene da auspicare che una simile lezione possa risultare utile per generare una nuova politica dei consumi, più attenta e basata su "low costs", prodotti cioè a costi bassi, e più propensa a monitorare il rischio di insolvenza, senza lasciarsi andare ad acquisti incontrollati..

Vi è la delicatissima questione, per terminare, del doppio e gravissimo indebitamento americano verso l'estero, debito sia di natura finanziaria (espansionismo di bilancio), sia di natura commerciale (consumi incentrati sull'import) che rendono oltremodo difficile - a meno di coraggiose riforme - un nuovo, serio progetto di rilancio commerciale e di investimenti sul PIL. Soprattutto considerando che i due terzi di detti debiti sono nelle mani di poche nazioni del Sud Est asiatico, in grado, in tal modo, di imporre facilmente le loro condizioni.
Sono, questi, argomenti molto seri sui quali riflettere e prendere adeguate contromisure. Temi purtroppo assenti nella recente campagna elettorale e nei programmi dei partiti. Contromisure che siano in grado di offrire stabili ed adeguate soluzioni alle problematiche esposte.

Quali i rischi per l'Italia? In un mercato finanziario instabile le nazioni caratterizzate da forte indebitamento (l'Italia per l'appunto) vedono, di conseguenza, aumentare la volatilità dei tassi di interesse. Basterebbe allora riflettere a come il rendimento dei nostri BOT sia inferiore a quello dei BUNDS tedeschi per renderci conto del perché gli investitori preferiscano acquistare altri titoli, piuttosto che quelli italiani. Esponendoci così a maggiori perdite per interessi sul debito. Vero è che l'economia europea sembra ancora ben solida, ma le prospettive di crescita sono alquanto deboli - in particolare per l'Italia - per temere possibili, ancorché limitate, ripercussioni: la finanza se vuole, sa bene come essere perversa.

 

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