Pubblicato su politicadomani Num 78 - Marzo 2008

Pianeta donne
Lavoro femminile con troppi vincoli
Scarsi risultati pratici nel 2007, anno europeo della parità di opportunità, delle iniziative di sensibilizzazione volte a promuovere il lavoro femminile: fatica infatti ad emergere la consapevolezza della valenza strategica delle politiche sociali e del lavoro nello sviluppo e nella crescita

di Michele Tiraboschi
(Direttore della Scuola di alta formazione in Relazioni industriali e di lavoro di ADAPT e della Fondazione Marco Biagi e Professore ordinario di Diritto del Lavoro della Università di Modena e Reggio Emilia)

La proposta di una tassazione differenziata per genere, avanzata già lo scorso anno e rilanciata in questi
giorni dagli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino [cfr. A. Alesina, A. Ichino, "Meno tasse sul lavoro (e alle donne ancora meno)", e "Due economisti propongono: meno tasse sul lavoro delle donne senza perdere il gettito" in Il Sole 24 Ore, del 19 gennaio 2008 e 27 marzo 2007 (rispettivamente) ed anche in Bollettino Adapt n. 2, 3 marzo 2008, pag 15 e 18 (rispettivamente), ndr] non ha sin qui riscosso grande successo tra gli addetti ai lavori. Ha però l'indiscutibile merito di porre all'attenzione dell'opinione pubblica un tema davvero centrale per il nostro Paese e di cui si parla ancora poco. Che non è tanto, a ben vedere, quello della occupazione femminile in sé considerata.
Nel 2007, anno europeo della parità di opportunità, si è a lungo dibattuto di ciò e, seppure con scarsi risultati pratici, le iniziative di sensibilizzazione volte a promuovere un mercato del lavoro più inclusivo per le donne si sono moltiplicate. Ciò che invece ancora fatica a emergere è la consapevolezza della valenza strategica delle politiche sociali e del lavoro rispetto ai temi dello sviluppo e della crescita.
Eppure, nella dimensione dell'economia della informazione e della conoscenza, i paradigmi dello sviluppo economico e quelli dello sviluppo sociale tendono oggi a convergere nella valorizzazione del capitale umano. Le politiche sociali e del lavoro, di conseguenza, possono risultare decisive non solo in una dimensione puramente distributiva, secondo le tradizionali logiche dei sistemi di welfare, ma anche, e prima ancora, rispetto agli obiettivi della produttività e della crescita. Si comprende così perché gli economisti enfatizzino, giustamente, le enormi potenzialità della occupazione femminile.
Non solo l'Italia ha, come indicano i raffronti internazionali (vedi le tabelle a margine), il maggiore divario tra tasso di disoccupazione femminile e quello maschile. È soprattutto il tasso di occupazione a destare allarme, posizionandosi tra i più bassi dell'area OCSE.
Meno di una donna su due in età di lavoro (15-64 anni) ha una occupazione regolare. Una ingiustizia sociale che, in termini di crescita e sviluppo, si traduce anche in una compressione della crescita del PIL. Ecco perché occorre aumentare drasticamente il tasso di occupazione femminile che, è bene ricordare, è distante di quasi 15 punti percentuali dagli obiettivi fissati a Lisbona per il 2010 (pari al 60 per cento). Ma è a questo punto che le opinioni degli economisti iniziano a divergere radicalmente. E c'è anche chi, altrettanto giustamente, ricorda come già oggi, in Italia, le donne lavorino più degli uomini. Solo che lo fanno senza essere pagate, nella cura della casa e dei familiari. E, se escono di casa, lavorano molto spesso a servizio di una economia sommersa che, per dimensioni e numero di persone coinvolte, non ha pari nel resto d'Europa.
Vero è peraltro che il divario dell'Italia rispetto agli altri Paesi si concentra prevalentemente nel Mezzogiorno, dove ben tre donne su quattro in età di lavoro sono senza occupazione. In queste aree del Paese ben poco potrebbe una tassazione differenziata per genere visto che qui il problema non è tanto quello dell'offerta di lavoro femminile quanto, semmai, la scarsa domanda di lavoro e la mancanza di reali opportunità di impiego nella economia regolare.
Tutte le (poche) proposte oggi in discussione meritano indubbiamente attenzione e anche un serio approfondimento in sede scientifica. A partire dal profilo, generalmente trascurato dagli economisti, dalla loro compatibilità con il diritto comunitario della concorrenza che, come bene sanno gli imprenditori italiani che hanno fatto riscorso ai contratti di formazione e lavoro, contempla una nozione di aiuto di Stato non solo assai ampia, ma anche insensibile alle finalità sociali dell'intervento.
Lo stesso solenne principio di parità di trattamento retributivo tra uomo e donna, sancito dal Trattato istitutivo della Comunità Europea, trova invero spiegazione nel timore di forme di dumping sociale legate ad un più basso costo del lavoro femminile. E anche il legislatore italiano, con riferimento al contratto di inserimento al lavoro, si è recentemente mosso con particolare cautela, riservando una riduzione differenziata per genere della aliquota contributiva alle sole aree del Mezzogiorno conformemente al regolamento comunitario vigente in materia di aiuti di Stato.
Il vero punto di riflessione, e il contributo che si vuole portare al dibattito, è tuttavia un altro e trae alimento dalla fallimentare esperienza in materia di legislazione sulle pari opportunità tra uomo e donna. L'attuale normativa costituisce, in effetti, un chiaro esempio dei limiti presenti in interventi poco selettivi e soprattutto poco attenti all'obiettivo di un generale miglioramento delle performance del mercato del lavoro che, a ben vedere, colloca il nostro Paese tra i peggiori anche con riferimento ai tassi di occupazione degli uomini. Quando è invece vero che, negli ultimi anni, proprio l'Italia ha registrato un incremento del tasso di occupazione femminile superiore alla media degli altri Paesi (vedi le tabelle).
La verità è che la tecnica degli incentivi può avere una preziosa funzione congiunturale, per la soluzione di problemi specifici del mercato del lavoro, ma non può rappresentare, di per sé, la scorciatoia per la soluzione di problemi strutturali. Problemi che, come noto, nel caso della occupazione femminile vanno ben oltre l'ambito di incidenza delle politiche fiscali, riguardando contestualmente le politiche di sostegno alla famiglia, le politiche di accesso alla istruzione e alla formazione professionale, le politiche previdenziali e del lavoro, le politiche sociali e culturali in senso lato. Di modo che la loro soluzione non può che dipendere da un approccio di genere integrato e trasversale a tutte le politiche pubbliche (il c.d. mainstreaming).
In mancanza di una strategia più comprensiva, volta a incidere sulle cause reali delle differenze di genere nell'accesso al lavoro, gli strumenti di incentivazione di tipo automatico riflettono le tendenze della domanda e non mostrano effetti di riequilibrio a favore della componente femminile che potrebbero invece essere conseguiti attraverso misure di sviluppo dei servizi alla persona e di sostegno alla famiglia.
La riflessione scientifica dei prossimi mesi potrà offrirci indicazioni più precise in merito ai presumibili effetti, anche per la componente maschile (soprattutto per i più giovani e i più anziani), della suggestiva proposta di Alesina e Ichino. Resta tuttavia forte l'impressione che difficilmente un incentivo economico potrà davvero funzionare se, contestualmente, non si rimuovono i molti disincentivi normativi che, anche da lato della domanda, incidono sul sistema complessivo delle convenienze imprenditoriali nella scelta di assumere una donna. In un mercato come quello italiano, che pone i suoi fragili equilibri su quella potentissima valvola di sfogo che è rappresentata dal lavoro grigio e sommerso, avremo davvero più donne in grado di trovare una occupazione se parallelamente, e come avvenuto in questi mesi in nome di un politicamente corretto principio di parità che nei fatti non esiste, si procede contestualmente a un irrigidimento del part-time e del lavoro a termine e a una penalizzante compressione degli schemi contrattuali a orario ridotto, modulato e flessibile?
(Pubblicato su Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2008 - Bollettino Adapt n. 2 del 3 marzo 2008)

 


Tabella 1 - Tasso di partecipazione al mercato del lavoro per genere
Fonte: Comparative Civilian Labor Force Statistics, Ten Countries
U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics (dicembre 2007)


Tabella 2 - Tasso di disoccupazione per genere
Fonte: Comparative Civilian Labor Force Statistics, Ten Countries
U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics (dicembre 2007)

 

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