Pubblicato su politicadomani Num 78 - Marzo 2008

Teatro - Identità negata
Figlie di Sherazade
La storia vera di due giovani donne che raccontano e si raccontano affinché altre donne possano un giorno vivere in condizioni migliori

 

Finalista al "Premio Ustica" 2007 per il Teatro di Impegno Civile. Premio Radio Rai "Microfono di Cristallo" 2007. Finalista al Festival Internazionale di Teatro PAN 2007 - Lugano. Iniziativa inserita nell'Anno Europeo delle Pari Opportunità per Tutti. È con queste le credenziali che "Figlie di Sherazade" è stato presentato a Roma, al Teatro Pigorini all'Eur, in occasione dell'8 marzo, dalla Compagnia Teatrale-Associazione Culturale "Il NaufragarMèDolce".

Capire e raccontare, al di là di giudizi e pregiudizi, situazioni di disagio dovute alla diversità di genere nel mondo. Portare una testimonianza attraverso uno spettacolo di narrazione, agile, improntato all'essenzialità, trasferibile in diversi contesti culturali. Una colonna sonora originale, una scenografia fatta di proiezioni, un gruppo di donne che raccontano di donne. Mettere l'accento sulla condizione del genere femminile e le sue ineguaglianze in diverse parti del mondo, sui diritti negati delle donne, e allo stesso tempo rivelare l'importanza dei percorsi di solidarietà e di presa di coscienza. Sono questi gli obiettivi ambiziosi e pienamente raggiunti di uno spettacolo creato e realizzato interamente da donne: Chiara Casarico e Tiziana Scrocca autrici, interpreti e registe; Rosie Wiederkher (gruppo Agricantus) e Ruth Bieri (compositrice svizzera) per la musica e il canto; Franca D'Angelo per la scenografia e le foto; Laura Gentile per l'organizzazione.
Aysha, Il mio nome comincia per A. Sono tre mesi che organizzo la
mia fuga…Io sono nata a Berlino da genitori turchi… Un matrimonio per noi è un grande mercato di nozze…. Preferirebbero vedermi morta piuttosto che tra le braccia di un tedesco. Mia madre si è sposata a quindici anni, senza che nessuno chiedesse il suo parere…. Ma forse mia madre non sa cos'è l'amore… Avevo dodici anni quando mio padre mi promise in sposa a mio cugino… Il sorriso mi morì istintivamente sulle labbra.Mio padre se ne stava lì a guardare mentre mio fratello mi riempiva di schiaffi, di pugni, di calci… "Non bisogna lasciar passare nulla alle ragazze, altrimenti le ragazze si montano la testa".Ho paura di finire uccisa da mio padre per aver disubbidito… e allora decido di scappare, scappare, scappare… Non posso fuggire in eterno. Ho bisogno ...

Zoya. Il mio nome comincia per Z. Sono passati cinque anni dal mio esilio. Io sono nata a Kabul "Il mio paese!" io lo guardo come attraverso le sbarre di una cella. Sotto il burqa… non vedo neanche la strada sotto i miei piedi. La mano, non puoi mostrare la mano nuda. Nessuna donna può circolare sola. I Talebani hanno ucciso una delle tradizioni più antiche del mio paese: gli aquiloni. Nel cielo di Kabul quando ero bambina c'erano tantissimi aquiloni, più aquiloni che uccelli. Prima scomparve mio padre, poi scomparve anche mia madre….i miei genitori hanno sempre lottato… Avevo 14 anni… ebbi poco tempo per preparami all'esilio. Divieto per le donne di ridere, di istruzione, di ricevere cure da un medico di sesso maschile, di indossare abiti con colori vivaci… DIVIETO, DIVIETO, DIVIETO…

Il Racconto
Aysha è nata in Germania da genitori turchi. Vive a Berlino, dove studia, lavora e si innamora di un ragazzo tedesco. I genitori hanno già deciso di darla in sposa al cugino, come è nella tradizione del loro paese d'origine e Aysha vive i conflitti tipici dei figli di immigrati: non si riconosce nella cultura dei genitori e non può sottostare alle loro regole. Inoltre, una quotidianità fatta di soprusi e violenze la porta a scegliere la fuga. Dopo avere vissuto come un animale braccato, Aysha approda ad un centro di accoglienza per donne maltrattate, si confronta con le altre donne, rielabora il proprio vissuto e scopre il potere curativo della parola e l'importanza di testimoniare la propria esperienza.

Zoya è una ragazza afghana rifugiata in Pakistan. I suoi genitori, attivisti politici, sono stati uccisi dai fondamentalisti quando lei era piccola. La loro morte e l'inasprirsi del fondamentalismo la costringono a fuggire in Pakistan. Della sua educazione si occupa una nonna "molto illuminata" che ha fatto di tutto per farla studiare. Grazie all'istruzione ricevuta in una scuola femminile clandestina, Zoya cresce nella consapevolezza di voler fare qualcosa per aiutare il proprio paese a risorgere dalla guerra e dal fondamentalismo. Torna in Afghanistan e riprende l'attività clandestina dei genitori. Scopre così che la sua esigenza politica è anche una pulsione intima.

Scenografia e musica
Le attrici siedono sulla "Gabbia Cubica" di Nato Frascà - una scultura realizzata nel 1964-65 ed esposta anche alla X Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma - per raccontare la loro storia... e per lo spettacolo. Un accostamento emblematico del percorso di ricerca, svolto dall'artista scultore, che supera la staticità del cubo e la sua forma vuota attraverso la dinamica dell'obliquità e delle diagonali, e le donne che, nel raccontare, ritrovano se stesse e il senso universale dell'essere donna.
Costruiscono la scena le luci e le ombre generate dalla proiezione di immagini che Franca D'Angelo, fotografa e scenografa, ha raccolto nei suoi percorsi di ricerca e di vita. Proiezioni visive incise, impresse sui personaggi e da loro stessi emanati. Così, nel vuoto di uno spazio astratto, buio, denso di negazioni, omissioni, amputazioni, censure, si distinguono a tratti dimensioni segrete d'anima, che emergono e si dissolvono in un crescendo di rimandi.
La musica, composta appositamente per lo spettacolo, sottolinea le scene, che sono intramezzate anche dal canto. Un canto che rappresenta la voce dell'anima di tutte le donne schiave della loro condizione e che è anche anelito di libertà, speranza, fiducia in un futuro migliore, possibilità di riscossa.

[Fonte www.naufragaremedolce.it]

 

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