Pubblicato su politicadomani Num 78 - Marzo 2008

Galleria Primavera
I colori di Arlecchino
In una città di provincia dell'entroterra napoletano la personale di Lucio Diodati, artista abruzzese solare e sottilmente ironico e canzonatorio

 

Si è appena conclusa (15 marzo) la mostra di pittura di Lucio Diodati "I colori di Arlecchino", ospitata dal Centro Culturale Arianna (Presidente la pittrice Imma Maddaloni) insieme alla Associazione New Umor Sound (Presidente Giuseppe Palumbo) presso la Galleria Primavera, Corso Italia 33, a Marano di Napoli.
Venti opere in cui la sceneggiatura che l'artista presenta è quella di un sipario figurato, calato su una realtà sognata, nella quale figure femminili, con sguardi rapiti dalle luci di una sensualità mediterranea, assorbono lo spazio, assurgendo al rango di "prime donne" sulla scena. Solari, buffe, ingenuamente maliziose, assorte in un loro stupore psicologico, riprese nel divenire di molteplici punti d'osservazione e di luce. Su scene fittizie si muovono donne semplici, ma capaci di soggiogare le cose soltanto con l'assoluta innocenza di esistere. Opere in cui l'artista propone una sorta di fuga dal presente verso atmosfere tinte da un delicatissimo tocco di orientalismo, che ricordano la maestosità della favola infantile. Mentre, nell'ombra, rimangono le riflessioni sulla vita.

La critica di Vittorio Sgarbi
I paesaggi umani di Lucio Diodati rivelano radici profonde nelle correnti artistiche
che si sono succedute nella prima metà dello scorso secolo. Non è comunque facile precisare la collocazione di questo artista, che pure è pervenuto a una personale sintesi di quelle lezioni. II suo modo di narrare e trasfigurare la figura umana, parla il linguaggio di riferimento del tardo espressionismo, quantomeno dove egli si esprime con accenni di ironia critica, e forse persino di divertimento, nella trasmutazione delle figure rappresentate. La sua visione è fortemente soggettiva e penetra all'interno dei visi, oltre gli sguardi, a scrutare una realtà di cui sembra prendersi gioco. Superando il realismo sociale, che nel ventennio dagli anni Cinquanta ai Settanta faceva il contropelo al perbenismo della borghesia, egli immette i suoi personaggi in una scenografia neutrale. Le sue figure sembrano condividere un rituale collettivo, ma fra di loro non dialogano, non si guardano mai in faccia, tutt'al più mettono in nostra, una di fianco all'altra, la loro personale mascheratura che rivela un'appartenenza sociale, se non l'essenza nascosta di una psicologia che si limita a prendere atto dell'esistere, senza turbamenti.
O forse queste figure sono solo attente a dare di se un'immagine liscia e composta di sicurezza. Del tutto personalissimo e questo modo di esporre, in primi piani e senza sfondo, la vita di creature non parlanti, e probabilmente anche un poco limitate nel sentire.
Sono borghesi asettici dal lungo collo teso in atteggiamento di ascolto curioso, garbati carabinieri un poco guardinghi, cappellini bizzarri che la dicono lunga sulle riflessioni delle signore che li indossano, giovani scollature un poco azzardate di una femminilità esibita con una garbata innocenza. La qualità della pittura gioca su tagli volutamente atonali, ma ad un esame più approfondito si possono cogliere i toni, i controtoni, le ombre di contrasto e la vivacità del taglio coloristico che caratterizza la struttura sostanzialmente scenografica dell'insieme, sempre illuminate da una luce diretta e solare. Lucio Diodati tende a occupare lo spazio della tela con la pienezza delle volumetrie cromatiche, che delineano sinteticamente corpi in tasselli geometrici di taglio quasi cubista. Alle spalle dei suoi personaggi lo spazio è vuoto, salvo alludere a una linea di orizzonte marino, o a quinte di colore modulate in stesure astratte. Questi fondi non decodificabili sono funzionali all'accentuazione dell'espressività stuporosa delle figure umane, che sembrano attendere, non solo con gli occhi ma anche con tutto il busto - le gambe non appaiono mai, come in un'inquadratura fotografica a distanza ravvicinata - un suggerimento da qualche misterioso interlocutore. In questi lavori si avverte la necessità di un'affermazione sulla pittura come gusto teatrale dell'immagine, dove una calda ironia tempera, persino con dolcezza, il gioco delle apparenze sospeso sul filo della problematica sociale. C'è anche un certo gusto realista del particolare, sia nell'accentuazione delle anatomie, che nell'accurata ricostruzione degli abbigliamenti e degli accessori. La riconoscibilità della situazione evita tuttavia le implicazioni narrative, e l'insieme di questi teatrini lascia volutamente in sospeso le possibili domande sulle intenzioni del loro autore. Diodati non pare affatto disposto a enunciare qualche fumoso intendimento etico dietro le trame di queste sue scelte di vita, avendo evidentemente scelto di porgere solo l'evidenza delle sue capacità descrittive. Ne prendiamo atto con apprezzamento.

[Dalla Prefazione al Catalogo]

 

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