Pubblicato su politicadomani Num 77 - Febbraio 2008

Eppur lavorano
Working poors: a rischio di esclusione sociale chi lavora in Italia
Da recenti indagini Istat la fotografia di un Paese alle prese con una nuova realtà sconosciuta e impensabile fino a qualche anno fa: siamo tutti, o quasi, al limite della soglia di povertà

di M.M.

Si chiamano "lavoratori poveri" (working poors) coloro che, pur avendo un lavoro, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale.
Per capire fino in fondo il dramma di questi lavoratori occorre chiarire alcuni dati ufficiali che riguardano la povertà in Italia.
La soglia di povertà per una famiglia di due persone, dice l'Istat, è pari a 970,34 euro.
La cifra è calcolata sulla base della spesa media familiare che risulta dall'indagine annuale sui consumi "al netto delle spese per manutenzione straordinaria delle abitazioni, dei premi pagati per le assicurazioni vita e le rendite vitalizie, delle rate di mutui e restituzione di prestiti"1, precisa l'Istituto nazionale di statistica. "Oggetto della rilevazione - aggiunge l'ISTAT - sono le spese sostenute dalle famiglie residenti per acquisire beni e servizi per il consumo [...] Ogni altra spesa effettuata dalla famiglia per scopo diverso dal consumo è esclusa dalla rilevazione (ad esempio l'acquisto di una casa e di terreni, il pagamento delle imposte, le spese connesse con attività professionale, eccetera)"2. Una esclusione non da poco, considerato che, per quanto riguarda i mutui-casa, sono 73,4% le famiglie che vivono in un appartamento di proprietà e di queste il 13,8% (pari a 2 milioni e 379 mila famiglie) paga un mutuo di circa 458 euro mensili.
Nella spesa media familiare va comunque compreso l'affitto dell'abitazione che è pari a circa 340 euro al mese.
La percentuale di famiglie povere in Italia è dell'11,1%: 2 milioni e 623 mila famiglie che corrispondono a 7 milioni e 537 mila individui poveri. Sono povere soprattutto le famiglie del Sud (il 22,6% contro il 5,2% del Nord e il 6,9% del centro), quelle con tre o più figli piccoli (30,2%), quelle il cui profilo culturale è basso (17,9%), quelle il cui capofamiglia è in cerca di lavoro (28,2%).
Uno stato di povertà e di rischio di povertà che trova le sue ragioni nella drammatica situazione di incertezza sul lavoro e di mancata crescita reale dei salari retribuzioni.
Le retribuzioni lorde italiane sono "inferiori di circa il 45% rispetto alla Germania e al regno Unito e di circa il 25% rispetto alla Francia", dice l'Eurispes. Allineate all'inflazione ufficiale, pur avendo mantenuto il potere d'acquisto hanno perso in realtà il treno dello sviluppo. Il ceto medio italiano si va assottigliando e sono in molti quelli che indietreggiano verso il confine della linea di povertà. Basta una spesa imprevista di qualche centinaia di euro, un aumento del tasso di interesse sui mutui, un tracollo finanziario di qualche impresa che mette in uscita i suoi dipendenti, per avvicinarsi a quel confine e, troppo spesso, per valicarlo.
La difficoltà ad accedere al mercato del lavoro, la presenza di lavori temporanei e precari, l'inadeguatezza delle pensioni, retribuzioni al limite della povertà rendono problematico adempiere alla responsabilità di mantenere una famiglia, specie se numerosa. Stiamo peggio che negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro è meno regolato che da noi. Se in America, infatti, i lavoratori poveri sono il 5,6% degli occupati, in Italia sono l'8,8%. Oltre al carico famigliare ci sono tre cause legate al mercato del lavoro che determinano lo stato di povertà: "i periodi di disoccupazione patiti durante l'anno, l'avere un lavoro con bassa retribuzione (e questa è la causa più importante), essere costretti ad accettare un lavoro part time per impossibilità di trovarne uno a tempo pieno", dice l'Eurispes.
Il problema italiano non è tanto la disoccupazione - scesa al 5,6%, pari a 1,4 milioni di persone e costantemente al di sotto della media europea - quanto il "cattivo lavoro", un lavoro cioè che non dà garanzie, privo di tutele, contraddistinto da incertezza e precarietà, oltre che da basse paghe. Esistono in Italia, a partire dal 1995, due mercati del lavoro: quello dei nuovi assunti, secondo le regole dettate dalla legge 30 (impropriamente chiamata "legge Biagi"), caratterizzato da un alto numero di diverse tipologie di contratti e un alto tasso di flessibilità e di precarietà, e quello dei lavoratori stabili per i quali non è stato previsto alcun cambiamento contrattuale. La flessibilità permanente sul lavoro si traduce in realtà in precarietà per il lavoratore e in perdita di competitività per le aziende. Infatti l'eccessivo o abituale uso di contratti a termine da parte delle imprese, se da una parte permette di utilizzare i lavoratori in funzione esclusivamente delle necessità dell'impresa, dall'altra impedisce la costruzione di un rapporto di fiducia e di partecipazione del lavoratore alla vita dell'impresa, relegandolo ad una posizione di marginalità e, in ultima analisi, anche di indifferenza nei confronti dell'impresa. È difficile, infatti, instaurare rapporti di fattiva collaborazione quando la permanenza nell'impresa è destinata ad esaurirsi nell'arco di pochi mesi e la paga è bassa, molto più bassa di quella dei lavoratori "fissi".
A partire dal 1996 è stata instaurata presso l'INPS una apposita gestione separata che si prendesse in carico dei contributi versati dai cosiddetti parasubordinati: lavoratori cioè il cui contratto di lavoro è temporaneo ed è caratterizzato da alta flessibilità. A partire dai 18 milioni di versamenti eseguiti nel 2005-2006, l'Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia, istituito fra l'Università "La Sapienza" di Roma, l'Ires Nazionale e il Nidil-Cgil, ha studiato le caratteristiche dei lavoratori parasubordinati arrivando ad una sintesi chiara.
L'INPS distingue due sottogruppi di parasubordinati:
- Gli amministratori e sindaci di società, enti e assimilati;
- I collaboratori e assimilati (quasi un milione di persone, i due terzi di tutti i parasubordinati)
La differenza fra i due gruppi è enorme perché mentre al primo gruppo appartengono persone del ceto medio-alto, socialmente e professionalmente ben posizionate, per le quali la flessibilità è una scelta, il secondo è costituito in larga parte da lavoratori poco qualificati per i quali la flessibilità subita si traduce in precarietà. Working poors, quindi, con uno stipendio annuo di 8.334 euro, un'età inferiore ai 37 anni, un alto numero di donne, e, per la maggioranza di loro (85%), titolari di quell'unica entrata come fonte di reddito.

1 ISTAT, "La povertà relativa in Italia 2006 - Glossario", 4 ottobre 2007
2 ISTAT, "I consumi delle famiglie - Anno 2006", 5 luglio 2007

 

Homepage

 

   
Num 77 Febbraio 2008 | politicadomani.it