Pubblicato su politicadomani Num 76 - Gennaio 2008

L'analisi
In margine ad una morte annunciata
Difficile capire cosa abbia spinto la Bhutto a comportarsi in un modo da cercare il martirio, più facile pensare che l'incoraggiamento degli USA sia parte di un piano ancora al suo primo atto

di Alberto Foresi

Quando furono diffuse le prime immagini del rientro in patria di Benazir Bhutto un'idea lugubre, quasi un presentimento mi attraversò la mente: questa alle elezioni non ci arriva. E la successiva condotta dell'aspirante premier non fece altro che avvalorare questa ipotesi, fino al compimento, lo scorso 27 dicembre al termine di un comizio tenuto a Rawalpindi, località poco distante dalla capitale Islamabad, del tragico destino, fortunosamente evitato il 18 ottobre a Karachi in occasione di un precedente sanguinoso attentato. Nessuno può entrare nella mente di un'altra persona e capire cosa ha spinto la Bhutto a comportarsi in un modo che non poteva condurre a un esito diverso: forse l'amore per la propria patria, l'illusione di una fattibile svolta democratica; forse, sulle orme del padre, l'inconscio desiderio di martirio e di portare per suo tramite alla ribalta mondiale la situazione interna pakistana.
Poco importa ora stabilire l'esatta dinamica dell'assassinio, intraprendere inutili indagini dall'esito scontato nella vana ricerca di autori e mandanti. Al di là di chi materialmente ha commesso il crimine, la matrice è da ricercarsi in tutti quelli che non vedevano favorevolmente la probabile vittoria: prima di tutto i vertici dello stato pakistano, l'attuale premier Musharraf e il suo entourage, che certo mal digeriscono l'ipotesi di cedere il potere dopo tanti anni di gestione dittatoriale, ma anche i fondamentalisti islamici, formalmente osteggiati dal regime ma di fatto, sin dai tempi dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, fortemente legati ai comandi della Difesa pakistana e soprattutto ai potenti servizi segreti locali.
Tutto questo, tuttavia, non aiuta realmente a comprendere l'attuale situazione pakistana e i fattori che hanno determinato l'assassinio della Bhutto. Le origini di quanto accaduto in Pakistan vanno ricercate indietro nel tempo, primariamente nella sconsiderata politica estera perseguita dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre. In nome della difesa della libertà e della democrazia occidentale si sono ripetuti gli errori già commessi in passato, dal Vietnam all'America Latina fino all'Iraq di Saddam Hussein, sostenendo a tutti i costi dittature spesso sanguinarie, concepite come l'unica risorsa in grado di opporsi al nemico di turno, sia esso il comunismo o il terrorismo islamista. Così si è armato e finanziato, oltre ogni ragionevole limite, il generale Musharraf, ritenuto probabilmente il male minore, il quale, da parte sua, si è ben guardato da un concreto impegno contro il terrorismo islamico e il fondamentalismo talebano, barcamenandosi in una politica ambigua volta solo a rafforzare il proprio potere personale. Chiedere a Musharraf di deporre i suoi poteri militari per presentarsi da candidato civile alle elezioni, appoggiare il ritorno della Bhutto, personaggio peraltro discusso in patria, nella speranza che, in nome della democrazia, i vari potentati locali s'inchinassero di fronte ad una donna che non aveva altro potere se non il teorico sostegno statunitense, tutto questo sembra più la sceneggiatura di un cartone animato di Walt Disney che non il tentativo di attuazione di un concreto progetto politico. Dobbiamo veramente credere che Musharraf, togliendosi la divisa, si fosse realmente privato del suo potere sull'apparato militare pakistano e, recitata la sua parte, fosse disposto a farsi da parte per spalancare le porte del governo pakistano ad una donna che, nonostante le nobili intenzioni, non sembrava realmente in grado di gestire un così delicato passaggio istituzionale?
Se appare frutto di eccessiva dietrologia vedere dietro un simile svolgersi degli eventi una raffinata manovra statunitense volta a mantenere in sella Musharraf, rinnovandogli una fiducia immeritata ma riconoscendogli tuttavia il concreto controllo dell'apparato di difesa pakistano - che annovera tra l'altro un cospicuo arsenale nucleare - non stupirebbe troppo se in breve tempo l'ex fedele alleato diventasse egli stesso parte delle "forze del male" e, al pari di Saddam Hussein, fosse annoverato fra i malvagi da estirpare.

 

Homepage

 

   
Num 76 Gennaio 2008 | politicadomani.it