Pubblicato su politicadomani Num 75 - Dicembre 2007

Briganti per amore e per calcolo
Storie minime di brigantaggio
Le vite dei briganti si intrecciano spesso con la storia del Sud d'Italia. Le loro vicende personali e il ruolo politico di cui vennero investiti li ha resi agli occhi della gente, nel bene e nel male, personaggi leggendari

di Raffaele Gagliardi

Un po' di romanticismo non può mancare nella triste storia del brigantaggio meridionale. Per questo appuntamento abbiamo soffermato la nostra attenzione su due storie particolari che prendono spunto da due diverse storie d'amore. Una terza, invece, introduce il tema del prossimo appuntamento: la rivoluzione napoletana.
La prima storia ha come protagonista un ricco e colto personaggio, Beppe Mastrilli, nato negli Stati Pontifici, brigante per amore: omicida a Terracina, la sua vittima era l'amato della donna di cui lui si era invaghito, fu costretto ad espatriare nel vicino Regno di Napoli, dopo aver ucciso delle guardie inviate ad arrestarlo, ma anche nel Regno borbonico si rese autore di due omicidi, due soldati che avevano avuto la sfortuna di fermarlo poco dopo la linea di confine. Catturato per un tradimento, fu imprigionato e, ritenuto atto al comando, gli si diede la custodia di un certo numero di ergastolani. Imbarcato per essere inviato a Roma, fu liberato per volere di una principessa. Tornato a Terracina uccise colui che l'aveva tradito e si diede nuovamente alla macchia. Curioso e singolare l'episodio di cui fu protagonista in una delle più singolari manifestazioni controrivoluzionarie avvenute in Europa dopo il 1789. Mastrilli stava per essere impiccato per i suoi delitti a Montalbano, piccola città della costa jonica, quando il cardinal Ruffo, generale dei sanfedisti calabresi, esponente di spicco del partito legittimista, ritenne utile alla causa di Ferdinando III presentare Mastrilli ai suoi soldati e alla plebe come il duca di Calabria, col quale in effetti egli mostrava qualche somiglianza. Il bandito si affacciò ad un balcone fregiato degli ordini di San Ferdinando e del Toson d'oro: la folla, ingannata dalle apparenze, fece risuonare nell'aria i suoi evviva e l'accolse col più grande entusiasmo. Quel principe di un momento porse la mano da baciare al cardinal Ruffo, e Sua Eminenza la baciò col più rispettoso degli atteggiamenti. Prima di mettersi a capo del piccolo esercito agli ordini del Ruffo, Mastrilli prese tutte le sue misure per garantirsi la grazia e una ricompensa in denaro da parte del legittimo sovrano. Sostenuto dal popolo, che era stato appena ingannato con tanta impudenza, l'ormai ex brigante poté assumere un tono d'autorità e dettare al cardinale le proprie condizioni. Finì i suoi giorni serenamente, a causa di una malattia, dicendo di essere pentito dei suoi delitti.
Pietro Mancino, protagonista della seconda storia, da colto e benestante che era divenne brigante, per aver vendicato l'onore delle sorelle che due principi avevano infagato. Ricercato, riuscì, addirittura, travestendosi, ad intascare la taglia che pendeva su di lui. Anche la storia personale del brigante Mancino, come quella di quasi tutti i briganti dell'Italia preunitaria si intreccia con la grande Storia della penisola. Nel gennaio del 1636 in Napoli si viene a sapere dell'intenzione del duca Tommaso di Savoia, d'intesa con la Francia, di occupare il regno napoletano. L'ambasciatore francese duca di Candai aveva il compito di raggiungere l'Adriatico e attendere lì che Pietro Mancino sollevasse l'Abruzzo e occupasse la dogana di Foggia, Bari e Monte Sant'Angelo. Sarebbe poi sbarcato e avrebbe iniziato la marcia per congiungersi con le truppe papali dirette verso Napoli. Il piano non funzionò e Pietro Mancino fuggì e raggiunse via mare Danzica, in Dalmazia, dove morì di malattia.
Feroce criminale. Così Vincenzo Cuoco, nella sua Storia della rivoluzione di Napoli, e Benedetto Croce dipingono il brigante Gaetano Mammone. A lui vengono attribuite persino abitudini antropofaghe. Nativo di Sora, lavorava come mugnaio nel suo paese. Insoddisfatto, si dette alla macchia, aderendo poco dopo alla prima restaurazione dei Borbone. Violenza, saccheggi e incendi caratterizzarono la sua esperienza di brigante al servizio di re Ferdinando. Imperversava con le sue bande uccidendo chi gli si opponeva e gettando in carceri disumane gli altri. Si racconta che tenesse addirittura teste mozzate al suo desco e che bevesse sangue umano. Politicamente utile al sovrano, Re Ferdinando lo definì "nostro buon amico e generale, il vero sostegno del Trono". Fu insignito così di decorazioni borboniche e, nonostante i delitti di cui si era reso responsabile, fu ricompensato dal Re con una congrua pensione.

 

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