Pubblicato su politicadomani Num 75 - Dicembre 2007

Un popolo di coriandoli impazziti

 

Mucillagine, poltiglia. Un popolo ridotto a frammenti vischiosi di sostanza organica che si muovono nell'acqua in modo incoerente guastandola. Un insieme inconcludente di "elementi individuali e ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni... coriandoli...". (Censis - 41° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2007).
C'è un momento nella vita in cui l'ottimismo deve cedere il passo alla amara constatazione del fallimento. Questo momento per Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis (Centro studi investimenti sociali) e tra i suoi fondatori, è giunto con il 41° Rapporto Italia. Una lettura dei dati, la sua, sconfortata e sconfortante. Un pessimismo che, quasi volesse attaccarsi a un ultimo barlume di luce, gli viene anche a causa dell'acuto dolore alla spina dorsale che da agosto lo sta tormentando, proprio quando il Rapporto prende la sua forma finale.
Come un abile direttore d'orchestra, De Rita ha a cuore la sinfonia complessiva, non la perizia dei singoli musicanti. Ed è questa armonia, che lui chiama "sviluppo di popolo", che non trova.
Il Pil dà segni positivi. Continua il "silenzioso boom" della minoranza industriale. Si sono consolidate le strategie di produzione e di mercato delle piccole e medie imprese. Si "è innescato il protagonismo dei grandi players", che sono riusciti a imporsi sui mercati internazionali (specie quelli dell'Europa orientale) senza perdere la propria dimensione spaziale e culturale nei settori industriale, finanziario e ora anche dei servizi (specie in campo energetico).
Non c'è stato, tuttavia, quel processo che gli esperti chiamano di "percolazione", di discesa cioè dei benefici dall'alto verso il basso. "Il successo della minoranza industriale non riesce a coinvolgere l'intero sistema sociale. Siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo". Non che siamo incapaci di sviluppo collettivo o di popolo: la ricostruzione, il '68, la lotta al terrorismo sono stati momenti diversi di questa capacità di "essere popolo". La mortificazione e l'appassimento delle forze vitali collettive ha ragioni profonde. C'è il persistente divario fra Nord e Sud. C'è il senso di vulnerabilità delle famiglie che hanno sofferto l'azione combinata dell'espansione dei prezzi seguita all'introduzione dell'euro; della contrazione dei salari, dovuta alle strategie "low cost" impiegate dalle imprese per far fronte alla aggressività dei mercati internazionali; della precarizzazione del lavoro, risultato di un complesso di ragioni quasi tutte nella sfera della contrazione delle spese di produzione con risparmi sul costo del lavoro. Ma ci sono anche altre ragioni.
Per far fronte alla loro condizione di vulnerabilità le famiglie hanno adottato "intelligenti strategie di contrasto", ma hanno anche perso lo slancio vitale della speranza. Una mancanza di fiducia che è da attribuire ad una "de-sublimizzazione" dei valori e degli ideali un tempo condivisi, e a un ripiegamento di stampo individualistico, risultato di una cultura da troppo tempo statica e priva di mordente. Un vuoto di cultura generalizzato, quindi, che non dipende da difficoltà di ordine economico e che si manifesta in "quella sensazione di continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l'opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa". Vincono così, inconsciamente, sull'antropologia collettiva i fattori regressivi.
La diagnosi finale è spietata: "mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio, desublimando ogni valore collettivo".
Che fare, allora? "Occorre saper elaborare nuove offerte di cultura collettiva, incardinate nella fedeltà all'idea e alla prassi del nostro sviluppo storico, antico e recente. Bisogna andare a riscoprire le forze reattive nel sottosuolo della nostra società e ridargli vigore".
Avventura, rischio personale e scambi relazionali sono, secondo De Rita, le strategie vincenti, quelle che nell'immaginario collettivo hanno fatto il successo "dei protagonisti più noti della recente minoranza vitale, siano essi fabbricanti di auto, pellami, vestiario o denaro". Occorre puntare sulle nuove minoranze attive, gente cioè che appartiene a quei microcosmi capaci di organizzarsi e di incidere e che basano la loro azione su valori fortemente condivisi. "Sembra, e forse lo è un'indicazione segnata da una logica minimalista, lontana dalla nobile consistenza degli obiettivi di sistema che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Ma è bene ricordare che oggi abbiamo il problema di innescare processi di lenta ma profonda evoluzione: solo le minoranze possono trovare la base solida da cui partire, possono fare innesco di nuovi processi sociali sfuggendo alla tentazione del breve termine e quella di diventare la maggioranza che fa e governa il sistema". Insomma, "Bisogna andare al resistente, magari piccolo, fondo di rifiuto dell'inclinazione al peggio, da cui può iniziare un faticoso percorso di nuova costruzione, dove la persona e gli scambi relazionali hanno peso strategico".
Che poi, per trasformarsi in sviluppo di popolo, le forze vitali appartenenti a questi microcosmi abbiano bisogno di un collettore collettivo e di una riconcentrazione di alleanze è inevitabile. La abituale risposta che il collettore debba essere l'azione politica nella sua tradizionale funzione di mobilitazione sociale non è oggi più valida. Non è un gettare la spugna e attendere il peggio: occorre ripensare i processi collettivi e, nel caso, reinventarli.

 

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