Pubblicato su politicadomani Num 74 - Novembre 2007

Cultura e religioni
Mansur Al Hallaj, maestro, mistico sufi e martire dell'Islam
Il suo insegnamento mirava a raggiungere l'ultimo significato del testo, quello più segreto e recondito: l'elevarsi del cuore, grazie alla divina intuizione, sino a ciò che Dio ha inteso

di Alberto Foresi

Il mondo dei mistici è senza dubbio particolare, popolato da personaggi spesso bizzarri e stravaganti, nei quali si sovrappongono la profondità della fede, l'acume del pensiero e la particolarità della condotta di vita. E, contrariamente a quanto spesso si crede, l'eclettismo nella vita e nelle idee non è prerogativa della religiosità mistica dell'Oriente, ma è ben attestata anche nell'ambito del monoteismo dei Popoli del Libro, ebrei, cristiani e musulmani. Basti pensare a personaggi quali Simeone lo Stilita, che visse a lungo sulla sommità di una colonna a Damasco. O a Francesco d'Assisi, la cui vita e le cui concezioni presentano aspetti ben più complessi di quanto generalmente si crede a livello della devozione popolare.
In un universo così affascinante e composito come quello dei mistici, fra tanti personaggi una figura spicca per l'eclettismo della sua vita e, soprattutto, della sua fede. Nato intorno alla metà del IX secolo in un villaggio nei pressi di Persepoli, in Iran, Mansur Al Hallaj apparteneva ad una famiglia da poco convertita all'Islam - il nonno professava ancora l'antica religione mazdea. Ancora adolescente si trasferì nelle città dell'Iraq, ove la dinastia abbaside, da poco assurta al potere estromettendo con la forza i sovrani omayyadi, aveva posto la sua capitale nella città di Bagdad, sorta in tale circostanza. Il motivo del trasferimento in Iraq, ove fiorivano le manifatture tessili, è da ricercarsi nel lavoro svolto dal padre, cardatore di cotone, attività in cui era spesso aiutato dal figlio, che alternava la pratica manuale allo studio della lingua araba e alla lettura del Corano. Verso i 16 anni Al Hallaj ebbe i primi contatti con il sufismo, i cui maestri, sebbene generalmente definiti "mistici", proponevano, attraverso il loro insegnamento e il proprio esempio personale, non tanto la ricerca dell'estasi, evento ritenuto marginale, quanto il distacco dal mondo, elemento questo indispensabile per la vera conoscenza della realtà. A Tustar, città ove aveva sede la manifattura tessile imperiale, frequentò per un paio d'anni uno dei più importanti maestri sufi, Sahl al-Tustari, il cui insegnamento era incentrato sulla ricerca dei molteplici sensi del Corano: partendo dalla prima esegesi letterale del Libro, l'insegnamento del maestro mirava a raggiungere un ultimo significato del testo, il suo significato più segreto e recondito che consiste nell'elevarsi del cuore, grazie alla divina intuizione, sino a ciò che Dio ha inteso. Metodo interpretativo che esercitò una forte influenza su Al Hallaj il quale nel suo insegnamento spesso farà ricorso al valore simbolico dei versetti coranici, nella ricerca dei significati più profondi e nascosti.
Da una parte il continuo rifarsi all'esegesi coranica, dall'altra una irrequietezza interiore che, unita all'esuberanza del carattere, lo portava a mutare luogo e maestri, fino a che egli stesso divenne un Maestro: questi i due aspetti peculiari della personalità di Al Hallaj. Proprio l'irrequietezza lo spinse a girovagare per le principali città dell'Iraq, a frequentare i più sapienti maestri, a far parte delle loro comunità e ad entrarne spesso in contrasto. Proprio questi contrasti, dovuti anche a gelosie personali, indussero Al Hallaj a compiere un primo pellegrinaggio alla Mecca non solo per adempiere all'obbligo legale ma anche per dedicarsi per un anno a prolungati digiuni, alla meditazione e all'ascesi. Ritornato dalla Mecca si stabilì nuovamente a Tustar, ove iniziò la sua opera di maestro, attirando a sé soprattutto giovani. La presa esercitata sul popolo dalle sue prediche congiunta all'eclettismo delle sue visioni spirituali cominciarono presto a rendere sospetto Al Hallaj al potere imperiale, che vedeva con diffidenza chiunque riuscisse a raccogliere fedeli al suo seguito, nel timore che sotto la parvenza religiosa si celassero malcontenti di natura politica e sociale.
Per sfuggire a questi sospetti - ed ai rischi che potevano derivarne - partì nuovamente e per più di cinque anni girovagò per l'Iran, predicando e dedicandosi alla stesura delle sue opere. Tornato in Iraq crebbero nuovi ed ulteriori sospetti su di lui, suscitando, in seguito alla diceria che egli compiva pubblici miracoli, accuse di ciarlataneria da parte dei suoi avversari. Situazione che lo spinse ad un nuovo pellegrinaggio alla Mecca, non più solo ma con un seguito di centinaia di discepoli, al termine del quale si stabilì con la moglie e i quattro figli a Bagdad, città che allora, popolata da circa un milione e mezzo di abitanti, era la più grande e ricca del mondo islamico e fra le maggiori città della terra. Non solo la ricchezza caratterizzava la città ma anche il suo fervore culturale, animata da poeti, giuristi, teologi e mistici che si affollavano presso la corte califfale. E anche in un simile contesto ebbe modo di porsi in evidenza: le sue orazioni estemporanee rimasero impresse nella memoria degli uditori al punto che furono tramandate oralmente per generazioni. Dopo un viaggio attraverso le aree più recondite della regione ed il terzo ed ultimo pellegrinaggio alla Mecca, al suo ritorno a Bagdad godeva di una popolarità eccezionale, che suscitò ulteriori sospetti ed indusse i suoi nemici ad agire decisamente contro di lui. Forse fu proprio durante le permanenza nella città santa che in Al Hallaj maturò pienamente la visione del martirio come unica soluzione della sua "follia d'amore", la follia che esigeva il totale annientamento dell'amante nell'Amato. E il martirio lo aspettava dietro l'angolo.
I discorsi estatici che pronunciava di fronte alle folle, i suoi scritti permeati da una fede spesso paradossale, le peculiarità delle sue visioni interiori costituirono un facile appiglio per chi voleva accusarlo di essere un eretico sovversivo. Fu sottoposto a processo da cui uscì sostanzialmente assolto. Nonostante ciò rimase arbitrariamente imprigionato per nove anni nelle carceri califfati. Speranza del potere imperiale era che l'isolamento provocasse nel popolo il suo oblio, ma così non fu. La sua fama resisteva alla prigionia, alimentata dalle visite dei suoi discepoli e dalla fama di compiere miracoli.
Nel 922, durante una fase politicamente convulsa del potere califfale, Al Hallaj fu sottoposto ad un nuovo e fulmineo giudizio e condannato a morte per volontà del visir di corte, preposto al mantenimento dell'ordine pubblico e da tempo acerrimo nemico del mistico. La sentenza fu sottoscritta dal califfo. La mattina del 26 marzo 922 Al Hallaj fu prelevato dalla cella, portato in una spianata e flagellato. Dopo l'amputazione di mani e piedi fu issato su di una croce dove rimase esposto sino al mattino seguente, allorché fu calato dal patibolo e decapitato. Le sue spoglie furono bruciate e le ceneri disperse da un minareto.

 

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