Pubblicato su politicadomani Num 74 - Novembre 2007

Editoriale
Il mestiere di scrivere

di Andrea Palladino

Enzo Biagi si è spento il 6 novembre, accanto alle figlie Carla e Bice. Era stato ricoverato nella clinica Capitanio di Milano qualche giorno fa. Era un cronista, puro, di razza. Era lontano anni luce dal giornalismo di oggi, fatto di desk e di notizie riciclate. Amava la strada, i fatti, il contatto con la realtà, con le storie che meritavano - e meritano - di essere raccontate.
Al giornalismo italiano manca ora una guida, una stella luminosa.
La morte di Enzo Biagi spinge a riflettere su cosa sia diventato oggi in Italia il mestiere di scrivere. Da una parte le redazioni tradizionali, arroccate a difesa dei privilegi di pochi, vanno avanti grazie ai sacrifici di migliaia di precari, sui quali sempre di più grava il peso della baracca, come si usa dire. Il giornalismo online è ancora molto immaturo. Su internet i portali informativi maggiori sono saldamente in mano ai gruppi editoriali dominanti (Repubblica e Corriere della Sera). I blog non possono ancora essere considerati giornalismo. Non è sufficiente rendere pubblico un documento o una dichiarazione; non basta aprire una discussione e riempire il portale di commenti che spesso sono tutti uguali, tutti allineati. Servono i fatti. quelli raccolti e annotati sulla strada, tra le persone, nel mercato della frutta come nei centri di potere. E sono questi fatti che spariscono dai nostri giornali, sono loro che spaventano la Casta.
Di Biagi va ricordata ed insegnata la storia. Direttore di grandi giornali, sempre con la valigia pronta. Pronto lui stesso a lasciare, quando la sua indipendenza poteva venire meno e la sua dignità rimanere offesa.
Osservatore attento ma non distaccato, anzi, partecipe, sapeva farsi guidare nel racconto dall'etica profonda che aveva imparato durante la guerra, etica ereditata dall'Italia dossettiana, quella illuminata che oggi sta sparendo.
Dopo l'editto bulgaro - e un po' fascista - di Berlusconi, è stato costretto a vedere da vicino un'Italia molto diversa da quella che lui aveva raccontato per decenni. Lui, che aveva lasciato il Corriere della Sera quando la P2 si accingeva ad allungare le mani sul primo quotidiano italiano, si è visto licenziare, allontanare dalla sua RAI da un mediocre direttore pronto a obbedire all'ordine dell'editore più discusso d'Europa. Ha capito con estrema lucidità che l'informazione italiana non aveva più bisogno dei fatti, della notizia, dell'approfondimento: del suo lavoro. Si è reso conto, allora, che la situazione era molto più grave di molti anni prima, quando, nel 1963, aveva dovuto lasciare la direzione del telegiornale nazionale perché ritenuto "comunista". Trentanove anni più tardi, nel 2002, non è stato uno solo a cacciarlo, è stato l'intero giornalismo italiano che, piegando la testa, ha recitato il de profundis del mestiere di scrivere. Nessun gruppo editoriale lo ha infatti chiamato a dirigere una redazione. E intanto le proprietà dei giornali italiani sempre più sono divenute colluse.
Oggi Biagi ci lascia mentre la stampa, indifferentemente di destra o di sinistra, piccola o prestigiosa come il Corriere della Sera, diventa merce di scambio per banchieri senza scrupoli e imprenditori d'assalto. E i fatti spariscono. La cronaca nera - certo importante - ruba la scena e invade gli spazi del racconto dell'Italia del rinnovato malaffare. Pochi ormai hanno il coraggio di scrivere come l'Italia stia cambiando in profondità, antropologicamente, e di quanto profondo sia l'abbandono di quel minimo comune denominatore di valori etici che univano il nostro paese.
Per ricordare Enzo Biagi e raccogliere il suo testimone, le grandi firme, i grandi editorialisti, i direttori dei giornali dovrebbero dedicare almeno qualche giorno della loro brillante carriera per andare a vedere quello che succede nelle strade, nei mercati, tra le persone. Dovrebbero riprendere il taccuino e la penna Bic che usavano tanti anni fa. Taccuino e penna che Enzo, il 6 novembre 2007, ha portato con sé in cielo.

 

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