Pubblicato su politicadomani Num 70/71 - Giu/Lug 2007

Ambiente ed energia
Una terra presa in prestito
G8. I "grandi" della terra si sono riuniti dal 6 all'8 giugno per discutere dei problemi del pianeta e delle soluzioni possibili. Lo fanno ogni anno in una località diversa. Quest'anno è stata la volta di Heiligendamm, in Germania. Questi incontri, non previsti da nessun organismo internazionale ma "inventati" dai sette paesi più ricchi (a cui si è aggiunta poi la Russia), sono sempre aspramente contestati: al summit non è previsto nessun intervento dei paesi poveri, che sono invece i protagonisti delle situazioni di difficoltà di cui parlano i G8. Questo rende gli incontri poco credibili. Anche i temi più a cuore dei paesi più ricchi quali l'energia e la salvaguardia dell'ambiente non riescono a trovare soluzioni condivise. È novità dell'ultimo G8 la proposta di Bush di formulare un piano a lunga scadenza contro il riscaldamento della terra in alternativa al Protocollo di Kyoto (mai sottoscritto dagli Stati Uniti). Molti ritengono che la proposta sia un pretesto per ritardare l'attuazione del Protocollo creando divisioni in seno all'Europa e ai paesi che lo hanno firmato

di Isabella Nanni

Il protocollo di Kyoto
Ricordate la favola del bambino che gridava "aiuto! al lupo!" a cui nessuno credeva più? Cosa c'entra con le fonti energetiche? Sono ormai anni che si parla di stato di allarme del pianeta e le minacce per il riscaldamento globale sono all'ordine del giorno su quasi tutti i giornali ma non fanno più notizia; sono relegate nelle ultime pagine perché l'argomento è diventato noioso ed è pure troppo ampio per essere discusso. Eppure riguarda il nostro presente e il nostro immediato futuro. Ma sembra, secondo fonti europee, che l'Italia non se ne occupi come dovrebbe. Sicuramente, come spesso accade, l'informazione è la prima grave "mancanza", perché la conoscenza del problema, si sa, ne aiuta la soluzione. E la politica cosa fa? Diffonde l'informazione? Cerca di risolvere il problema? Il Ministro dell'Ambiente, in primo luogo, ma anche quello dell'Istruzione, quello dell'Economia e il Ministro dei giovani (Politiche Giovanili e Attività Sportive) dovrebbero favorire prima di tutto la diffusione di una corretta cultura energetica a partire dalle scuole: spiegando le necessità del pianeta e degli uomini, promuovendo l'educazione ambientale, descrivendo le fonti energetiche e il ruolo che esse hanno nella vita di tutti i giorni, e soprattutto rendendo tutti consapevoli del problema dell'inquinamento ambientale e dell'esaurimento delle fonti primarie. Da troppo tempo ormai abbiamo abusato di tante, troppe fonti primarie. Tanto che si stanno esaurendo. E l'andamento del consumo energetico annuale pro-capite nei paesi industriali continua vorticosamente a crescere.
Alla domanda di quali alternative ci siano, segue la risposta (ovvia) che occorre utilizzare proprio le energie alternative, quelle chiamate anche rinnovabili, preziose e integrative. Quelle di cui si parla e che sono raccomandate nel Protocollo di Kyoto.
Il protocollo di Kyoto è stato sottoscritto già dieci anni fa, nel 1997, da più di 160 paesi, ed è entrato in vigore dal febbraio 2005. Ma non tutti sanno cosa prevede. Dunque, il trattato prevede l'obbligo per i paesi industrializzati nel periodo 2008-2012, di operare una drastica riduzione delle emissioni di elementi inquinanti, i gas serra, tra i quali il biossido di carbonio, in una misura non inferiore al 5,2% rispetto alle emissioni registrate nel 1990. L'obiettivo è di far azzerare entro il 2100 le emissioni di gas serra, e di ridurle nel medio termine in misura sufficiente a fermare l'aumento delle concentrazioni in atmosfera. Questo allo scopo di contenere entro 2°C l'incremento della temperatura terrestre. Superata questa soglia, infatti, si calcola che aumentino rapidamente le probabilità di conseguenze irreversibili e catastrofiche sugli ecosistemi e di minacce alla sopravvivenza di interi popoli.
Gli scienziati che hanno studiato le conseguenze delle emissioni dei gas serra hanno cercato soluzioni economicamente accettabili: rilevato che il mondo immette 6000 milioni di tonnellate (Mt) di CO2, di cui 3000 vengono dai paesi industrializzati e 3000 da quelli in via di sviluppo, non è stato chiesto a questi ultimi di ridurre le proprie emissioni al fine di non ostacolarne la crescita economica. Con il protocollo di Kyoto si chiede infatti uno sforzo solo ai paesi industrializzati, affinché questi riducano le emissioni mondiali da 6000 Mt a 5850 Mt.
Non è un obiettivo né assurdo né insignificante né secondario. Chiunque dovrebbe essere sensibile a questo argomento, sentirsi responsabile e cercare di collaborare per non distruggere il pianeta. E invece molti paesi non hanno aderito al Protocollo di Kyoto. Tra questi figurano gli Stati Uniti, che da soli sono responsabili del 36% del totale delle emissioni mondiali; la Cina e l'India, che si avviano a diventare le prime potenze economiche e industriali del mondo, con il loro carico di inquinamento ambientale; l'Australia, la Croazia, Monaco e il Kazakistan.
L'Italia ha aderito, ma lo ha fatto, diciamo, all'italiana. Già nel 2003 l'Italia aveva superato del 12% i livelli di emissioni nazionali di gas serra rispetto al 1990, non rispettando i patti: non solo ha superato le soglie consentite ma ha addirittura aumentato ancora di più le emissioni di gas climalteranti. Altri paesi, tra i quali spiccano Francia e Germania, hanno dimostrato che se c'è un impegno serio arrivano anche i risultati positivi, anche se lentamente.
In Italia, più ancora che nel resto dell'Europa, l'economia continua a basarsi su logiche che sono fuori da ogni prospettiva di cambiamento del sistema energetico e a favore di una minore dipendenza dalle fonti fossili, non più accettabili per il bene comune. Rispetto agli altri paesi è carente in Italia la diffusione di informazione ambientale finalizzata a sviluppare la mentalità del rispetto per l'ambiente in cui viviamo. E porsi questo come primo obiettivo sarebbe già un buon inizio, un primo passo nella giusta direzione in un lungo percorso.

Risparmiare energia e produrla rinnovabile
Le pietre miliari del protocollo di Kyoto per la salvaguardia della terra sono essenzialmente tre: il risparmio energetico, l'utilizzo di energie rinnovabili e lo sviluppo sostenibile. Ognuna di esse richiede però il concorso delle altre due al fine di raggiungere il traguardo ambito.
Riguardo il miglioramento dell'efficienza energetica negli usi civili e industriali l'Eni, sul suo sito internet, propaganda 24 consigli per risparmiare il 30% di energia ("consumare meglio, guadagnarci tutti" dice lo slogan) o, meglio, per razionalizzare l'utilizzo dell'energia: otto consigli per l'uso domestico con piccoli gesti quotidiani, quattro negli acquisti di elettrodomestici più efficienti, tre per regolamentare l'uso della temperatura in casa e in auto, quattro alla guida, cinque per la piccola manutenzione dell'auto. Utili, per carità, ma irrisori se non associati a vere politiche di risparmio energetico e che, per esempio, penalizzino coloro che queste regole non le applicano e premino coloro che invece dimostrano rispetto per l'ambiente. Una prassi disattesa, quella della mancata penalizzazione di chi inquina, che è particolarmente grave se è applicata (come lo è) agli usi industriali, il cui inquinamento ambientale è di un ordine di grandezza molto più elevato di quello domestico e individuale e che hanno sull'ambiente un effetto tragicamente più distruttivo. Nulla è stato fatto per spingere le industrie a risparmiare energia, investendo in macchinari più efficienti, ad usi più contenuti dell'energia, ad ottimizzare l'energia a disposizione. Né ci sono stati provvedimenti seri volti a punire le industrie che inquinano di più. E non si dà il buon esempio nemmeno col risparmio energetico pubblico: si potrebbe cominciare perlomeno utilizzando nelle amministrazioni pubbliche lo standard GreenLight, già in adozione in Europa, che permette di ridurre del 30% i consumi rispetto alle tecnologie standard di illuminazione, recuperando l'extracosto in meno di 4,7 anni (si tratta di installazione di sistemi e componenti d'illuminazione più efficienti, di sistemi automatici di accensione e spegnimento e di regolazione dell'intensità, con sensori e rilevatori di presenza). Ma, soprattutto, come primo obiettivo, bisognerebbe arrestare la tendenza costante ad accentrare la produzione energetica in grandi impianti e sviluppare invece la generazione distribuita in impianti di piccole e medie dimensioni, capaci di recuperare calore e, dunque, di conseguire rendimenti superiori alle centrali tradizionali: si otterrebbe così una rete energetica flessibile, vicina all'utenza, di facile espansione e dalle grandi potenzialità di mercato in vista dell'imminente (probabile) liberalizzazione del settore, anche per le utenze private. E potrebbe ridurre decisamente i rischi di black-out nazionali.
Certo, si è avviata una politica di risparmio energetico che promuove l'efficienza energetica attraverso una corretta e previdente progettazione dell'edilizia (architettura bioecologica e solare passivo, coibentazione, uso di materiali ecocompatibili a bassa energia), ma anche questa deve andare di pari passo con l'innovazione tecnologica orientata a tal fine. Quindi l'investimento nella ricerca e nell'innovazione tecnologica dovrebbe essere una priorità della politica economica italiana. E invece dall'Italia i "cervelli" scappano per fare ricerca altrove, e da noi la ricerca va a strascico, vive sui risultati ottenuti nelle altre nazioni, si usano le idee messe in atto negli altri paesi male adattandole ai bisogni interni. Un altro caso, quello del riciclo delle idee, di raccolta differenziata non riuscita. Si parla, per esempio, in Italia di sfruttamento dell'energia eolica, ed è facile imbattersi in distese di terreno punteggiate da mulini a vento tecnologici che si ergono nel paesaggio come tanti spaventapasseri vestiti di bianco. Ma se in Spagna l'energia eolica ha ben funzionato, probabilmente in Italia il vento non è la fonte rinnovabile più adatta alla conformazione geografica-paesaggistica del nostro paese. "'O sole mio" potrebbe essere la fonte di energia più amata dagli italiani, sembrerebbe ovvio. Ma, no ... la tecnologia del solare termico per la produzione di acqua ad uso domestico e il riscaldamento degli ambienti (ormai matura, affidabile e dai costi contenuti) in Italia non scalda. Germania, Austria e Grecia hanno avuto negli ultimi anni tassi di crescita importanti, ma l'Italia continua ad essere in questo settore in notevole ritardo ed esistono ancora otto milioni di scaldabagni elettrici installati (il sistema a peggiore rendimento per il riscaldamento di acqua per usi sanitari!). Inoltre, la potenza installata di fotovoltaico è circa 28 volte inferiore a quella della Germania, nonostante l'Italia goda del 50% in più di insolazione annua. E con l'avanzare della ricerca (negli altri paesi, si intende), con gli stessi investimenti che facciamo nel fotovoltaico riusciremo a produrre ancora più energia, probabilmente il doppio a medio termine.
In Germania e Giappone le politiche a favore dell'energia rinnovabile stanno avendo successo perché i relativi governi hanno deciso di investire nel futuro e nello sviluppo della propria industria stimolando la domanda interna, con il beneficio di maggiori introiti per l'industria e di creazione di posti di lavoro. In particolare, ciò si è verificato grazie ad adeguati programmi di incentivazione della produzione elettrica dal sole (in Germania) e per la stretta collaborazione dell'industria fotovoltaica con il settore edile (in Giappone). La discussione di politiche di incentivazione che favoriscano lo sviluppo e l'utilizzo delle fonti rinnovabili in Italia non è ancora né sufficiente né adeguata, diciamo pure che è "in alto mare" ... e dire che anche il mare sarebbe una fonte di energia non trascurabile dal momento che disponiamo di oltre ottomila chilometri di costa.

La mobilità sostenibile
Oltre al risparmio energetico e alle energie rinnovabili nel protocollo di Kyoto si parla anche di mobilità sostenibile con cui si intende incoraggiare un sistema di mobilità urbana che, pur consentendo a ciascuno l'esercizio del proprio diritto alla mobilità, sia tale da non gravare eccessivamente sul sistema sociale in termini di inquinamento atmosferico e acustico, congestioni, incidentalità. Tutte cose che presentano vantaggi anche economici per l'Italia, dal momento che gli alti e crescenti prezzi delle fonti primarie pesano indubbiamente, e molto, sull'economia italiana giocando un ruolo primario nel tenere l'inflazione a livelli alti, mentre la dipendenza energetica dall'esterno sta diventando una minaccia vistosa e reale.
I trasporti contribuiscono per il 14% ai gas serra. Nell'Unione Europea l'80% degli spostamenti avviene su gomma; ma è in Italia che, con il più alto numero di auto per abitante in Europa, il settore trasporti contribuisce per circa il 25% al totale delle emissioni di gas serra del Paese. Allora andrebbe incentivato il trasporto pubblico su ferro e acqua e, comunque, l'utilizzo dei mezzi pubblici, a patto che siano a basso tasso di emissioni, e si presuppone che almeno i mezzi pubblici lo siano. Se proprio indispensabile, le auto dovrebbero viaggiare piene, per esempio utilizzando il "car sharing" o le auto in pool; il loro stato dovrebbe essere periodicamente controllato (gomme sgonfie e filtri dell'aria non puliti fanno consumare più carburante); i percorsi abituali dovrebbero essere ottimali, strade ben tenute e percorsi più brevi. È chiaro che è compito degli enti locali lavorare d'impegno per introdurre diversificati sistemi per la migliore gestione del traffico. Anche le auto dovrebbero essere efficienti ed ottimali, invece che uno status symbol con alto potere inquinante. I SUV (Sport Utility Vehicle), per esempio, così come le auto con centinaia di cavalli, hanno consumi elevatissimi e, quindi, sono molto dannose per l'ambiente: inutile e controproducente acquistarle e produrle. La mobilità inutile va eliminata o quanto meno limitata. Sulle strade viaggiano infatti migliaia di camion, spesso vecchi e maltenuti, che traghettano la nostra penisola in lungo e in largo, molte volte sono vuoti o comunque non pieni. Sono necessari atti concreti non solo da parte della politica, anche da parte dei singoli: ognuno dovrebbe vivere responsabilmente le proprie scelte con la consapevolezza di ciò che consuma e "produce" in termini di inquinamento. Un esempio? Preferire cibi e bevande locali rispetto a quelli che provengono da località lontane. Classico esempio è l'acqua in bottiglia: si beve al sud l'acqua che arriva dal nord, mentre quella raccolta e imbottigliata al sud percorre centinaia di chilometri per arrivare sulle tavole del nord.
Sarebbe anche una bella idea investire nei nuovi carburanti, che sicuramente costituiscono il carburante del futuro, ottenuti dalla trasformazione del cibo (come il bioetanolo o il biodiesel) o dei rifiuti. Si prenderebbero così due piccioni con una fava: si darebbero cioè prospettive di soluzione al problema energetico e a quello dello smaltimento dei rifiuti. Ma questa è un'altra storia.
Insomma, per la valorizzazione delle nostre risorse e per soluzioni ecocompatibili occorre un forte impegno da parte di tutti: incentivi, campagne di informazione, legislazione e regimi fiscali ad hoc, certificazione energetica degli edifici e delle industrie, sono solo alcuni degli strumenti a disposizione. Protocolli di intervento garantiti, che assicurino tempi di ammortamento brevi ed efficacia dei risultati, sono ormai diffusi in tutta Europa. Basterebbe copiarli e applicarli, in maniera seria e responsabile.
L'obiettivo remoto è sempre quello di salvare il pianeta, ma quello immediato è di renderci la vita migliore. Un antico proverbio pellerossa dice "la terra non è ereditata dai genitori ma presa in prestito ai figli". Sarebbe bene che la restituissimo sana.

 

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