Pubblicato su politicadomani Num 70/71 - Giu/Lug 2007

Antichi motivi di scontento
Alle radici del brigantaggio nell'Italia postunitaria
Banditi, resistenti e terroristi, i briganti del napoletano sono il risultato di una situazione di forte conflittualità fra la popolazione contadina del sud e il Governo centrale piemontese

di Raffaele Gagliardi

L'Italia degli anni immediatamente successiva all'unità (1861-1874) vide l'impiego di oltre centomila uomini dell'esercito piemontese (circa metà delle forze militari del Regno), schierati nel meridione contro la popolazione del sud, che pagò la resistenza con oltre centocinquantamila vittime. È in questo contesto di rivolta popolare che si inserisce il fenomeno del brigantaggio napoletano. Un fenomeno che è anche il risultato di una riforma agraria mancata. Le carte di archivio dimostrano che si è trattato di una vera e propria insurrezione finanziata dall'ultimo re borbonico in esilio. È inoltre un fatto storico la presenza, dietro il fenomeno del banditismo, dello Stato Pontificio, la potenza straniera che dopo l'unità d'Italia aveva tutto da perdere. È anche storicamente provato che molti banditi furono strumentalizzati per scatenare il caos nelle province meridionali. Ma è vero pure che in molti saccheggiarono e uccisero allo scopo di arricchirsi o di compiere vendette. Sono stupefacenti le somiglianze fra la situazione nel Sud Italia in quei tredici anni con l'attuale guerra in corso in Iraq o in Afghanistan, e, se andiamo indietro nel tempo, con la guerra in Bosnia negli anni '90 del secolo scorso, e con quella che si combatté dopo l'armistizio del 1943, quando nella penisola si fronteggiavano formazioni comuniste, gruppi monarchici, profittatori di guerra, banditi veri e propri.
La storiografia ha sempre definito il brigantaggio del dopo 1861 come una forma di banditismo già esistente. A partire dagli anni 70 del secolo scorso, però, qualcosa è cambiato: si parla di romantici ufficiali dello sconfitto esercito borbonico che si battevano per la restaurazione, e di soldati sbandati che si erano riorganizzati inalberando il vessillo di Franceschiello.
Gli studi si sono approfonditi ed estesi; i libri pubblicati sono diventati migliaia; di continuo vengono fuori testimonianze che, raccolte in volumi, aumentano il numero dei documenti a disposizione degli studiosi. Cresce anche la curiosità degli operatori locali che spesso alimentano ricostruzioni fantasiose di episodi di quel tempo. Nella fantasia popolare prendono vita tanti Robin Hood, e tanti personaggi storici, o anche fantasiosi, diventano eroi locali. La ferocia della guerra viene mitizzata creando così le premesse per la discesa in campo di mistificatori e sedicenti politici che, nascondendosi fra le pieghe di una pseudo-politica fatta di pressapochismo, ignoranza e demagogia, cavalcano la tigre dello scontento e il desiderio di mantenere antichi e consolidati privilegi (privilegi che risalgono agli anni della amministrazione Lauro, e, ancora prima, agli anni del fascismo) per proporre un improbabile ritorno alla casata borbonica o quantomeno, sulla falsariga delle rivendicazioni della Lega Nord, l'autonomia del Sud dal Governo centrale e addirittura l'indipendenza.
In realtà i documenti raccontano un'altra storia. Molto meno romantica e molto più concreta: una storia di promesse mancate, di speranze deluse, di opportunità svanite. Delusioni e frustrazioni che hanno alimentato ribellioni e tradimenti, atti di eroismo supremo e suprema viltà, commessi da briganti e popolazione, da garibaldini, da componenti dell'esercito Sabaudo e da funzionari piemontesi e locali.
Quando i Mille sbarcarono in Sicilia nel 1860 i contadini si ribellarono in massa contro la Chiesa, l'aristocrazia e in alcuni casi anche contro l'esercito borbone. Speravano infatti di ottenere la proprietà delle terre, come era stato loro promesso da Garibaldi.
Era, questa, una speranza vecchia di almeno due secoli. Si trattava delle terre una volta di proprietà dei feudatari i quali, incapaci di farle fruttare, le avevano vendute ai fattori (i nuovi ricchi dei borghi, da cui il termine "borghesia") che sapevano come trarne ricchezza. In questa transizione furono però i contadini a pagare il prezzo più alto. Nel passaggio dagli antichi padroni, che, tutto sommato, disinteressandosi delle loro terre lasciavano a chi le coltivava ampie possibilità di goderne i frutti, nelle mani avide dei nuovi padroni, i contadini si impoverivano rapidamente: con le terre saldamente in mano ai ricchi fattori, infatti, i contadini venivano a perdere quei benefici di cui fino ad allora avevano goduto, grazie alla loro laboriosità e alla "distrazione" del feudatario.
A metà settecento, in pieno illuminismo, i consiglieri economici di Carlo di Borbone-Farnese insistettero con il sovrano perché fosse favorita (con il contratto dell'enfiteusi) la formazione della piccola proprietà. Si accendeva così una grande speranza: non solo per i contadini di venire in possesso delle terre che coltivavano, ma anche per il Sud d'Italia (Regno delle due Sicilie) di iniziare un percorso di emancipazione e modernizzazione del ceto contadino. Speranza andata poi delusa per la mancanza di norme che favorissero tali contratti: le terre, tutte le terre, furono vendute, sia quelle feudali, soggette all'uso contadino, sia quelle non feudali.
Normale che i contadini si opponessero alla soppressione dei loro diritti sulla terra. E normale anche che facessero sentire la loro voce fino al re. Normale, ancora, che questo loro malcontento fosse nutrito dalla speranza di poter venire in possesso delle altre terre comunali, incluse quelle ecclesiastiche. I Borboni decisero di appoggiare le masse contadine contro la borghesia ricca: la scelta avrebbe fruttato ai sovrani il favore delle classi contadine e avrebbe tenuto a bada la borghesia insofferente. Una prospettiva che sarebbe morta con l'unità d'Italia nel 1861.
Il piano piemontese di Camillo Benso Conte di Cavour, più che a fare dell'Italia uno stato unitario nel suo complesso mantenendo le specificità del nord come del centro e del sud, mirava ad estendere su tutta la penisola il dominio dei Savoia imponendo nel resto della penisola il modello piemontese ispirato ad una rigida burocrazia. Per vincere l'esercito Borbone e continuare da sud la marcia vittoriosa delle camicie rosse verso il nord c'era stato bisogno dell'alleanza dei ceti popolari e contadini. Da qui le promesse dei Mille e dei funzionari del nord fatte ai contadini del sud di dare loro in proprietà le terre che avrebbero confiscato. Naturalmente non fu così. I contadini napoletani (si chiamavano allora "napoletani" tutti i sudditi del Regno delle due Sicilie) si accorsero ben presto di essere stati traditi. Tentarono di ribellarsi ma ogni loro rivolta venne repressa nel sangue e l'ordine fu ristabilito a favore della borghesia locale e a spese della nobiltà, che prese in gran parte la via dell'esilio. Molte sono le prove disponibili sulla ferocia che contraddistinse gli scontri fra Esercito regio e popolazione. Molto spesso si fece ricorso ad arresti arbitrari, a massacri perpetrati da ambo le parti, a rapimenti e pagamento di riscatti, a momenti di follia collettiva alternati ad atti di eroismo e di civiltà. Alla fine il fenomeno fu arginato: vi contribuirono lo scorrere del tempo, gli eventi internazionali, come l'annessione dello Stato pontificio nel 1870, e nazionali, come la mancata riforma fondiaria che lasciando immutato il quadro economico meridionale, avrebbe spento qualsiasi residua speranza e avrebbe portato alla fine del secolo XIX all'esodo biblico di milioni di italiani verso il Nuovo Mondo.

 

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