Pubblicato su politicadomani Num 68 - Aprile 2007

Una storia d'amore
Una volontaria a Casal del Marmo
"Avevano l'età di mio figlio e mi hanno aiutato tanto a capire i meccanismi di crescita adolescenziale. Loro non lo sanno ma sono stati di grande aiuto per me come genitore" (Loreda Carluccio, mamma volontaria nel carcere minorile di Roma)

di Damiano Sansosti

"Ho preso in considerazione l'idea di fare volontariato dopo aver sentito mio marito, che, tornato da una celebrazione nella parrocchia di San Giovanni Battista, mi raccontò la testimonianza di Benedetto e Caterina sul loro volontariato in carcere". Siamo agli inizi del 2003, è una fredda giornata di gennaio, e a Loreda per la prima volta si presenta l'idea di fare volontariato in carcere; si confronta col marito e col figlio sedicenne, ma sente che non è ancora pronta.
Va a Lourdes, Loreda, come fa ormai da qualche anno, e qui incontra un uomo, un avvocato, che le racconta della propria esperienza nel carcere minorile di Napoli, dove egli va, sovente, a trovare un ragazzo accusato di omicidio: " Mi ricordai allora del carcere minorile".
A febbraio 2003 Loreda è nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. Mentre parla nei suoi occhi scorrono i ricordi: la telefonata a Padre Gaetano, il cappellano di Casal del Marmo, l'incontro con gli altri volontari, le paure, l'impatto con i ragazzi detenuti.
La realtà del carcere minorile emerge subito; lo sguardo curioso dei ragazzi e i silenzi delle ragazze si mescolano con l'insofferenza per la reclusione ("quando esco?" è la domanda più frequente), con la speranza per un futuro migliore e con la consapevolezza che cambiare sarà difficilissimo.
Loreda va a Casal del Marmo il mercoledì e la domenica, passa con i ragazzi tre ore ogni volta, sta con loro nelle ore di gioco, li accompagna alla messa domenicale, chiacchiera con loro, e inizia pian piano a conoscerli e a farsi conoscere, a dare e a ricevere, sempre con rispetto. "Alcuni li porto ancora nel cuore, sono chiarissimi i loro nomi e i loro volti. Avevano l'età di mio figlio e mi hanno aiutato tanto a capire i meccanismi di crescita adolescenziale. Loro non lo sanno ma sono stati di grande aiuto per me come genitore."
La caratteristica di Casal del Marmo, del carcere minorile in genere, è che questi ragazzi entrano ed escono in continuazione. Quando tornano in libertà i ragazzi vengono restituiti al contesto sociale di prima, e poco dopo sono di nuovo in carcere. "Pochi sono i privilegiati che hanno una comunità che li sa accompagnare, li sa accogliere. Molti rientrano nei loro contesti familiari, con tutte le problematiche che avevano lasciato". Molti di loro sono nomadi o stranieri. I reati più diffusi sono rapina, furto, spaccio, uso di stupefacenti. "Non so quanto è presente in loro la coscienza di aver commesso un crimine. Alcuni stranieri sono sollecitati a rubare dalla necessità di procacciarsi da mangiare. Per i nomadi è il loro contesto di vita, il loro modo di essere. La coscienza di quello che fanno non ce l'hanno. Per loro è normale, è la vita. Per cambiare, per farcela, devi avere qualcuno che ti guarda e qualcuno che ami. Devi essere amato e devi amare. Queste erano, per loro, le due condizioni per potercela fare". Per gli italiani è diverso. I ragazzi italiani che sono lì, quasi sempre hanno commesso dei reati gravi. Per loro, prima del carcere minorile, esistono molte altre soluzioni, come l'affidamento alla famiglia, ai servizi sociali sociali, alle comunità.
Gli agenti non indossano la divisa, sono in borghese e spesso si confondono, nei grandi spazi verdi di cui dispone Casal del Marmo, con le altre figure di riferimento per i ragazzi - la direttrice, il comandante, gli educatori, il cappellano, i volontari - e con i ragazzi stessi. "Per molti la detenzione è l'occasione per costruire dei rapporti più amichevoli". C'è chi gioca a calcio, chi si siede sotto gli alberi, chi va in palestra. C'è il corso di ricamo per le ragazze e la scuola.
Le celle sono solitamente aperte e i giovani detenuti passano il tempo insieme. All'interno dell'Istituto ci sono due palazzine dove dormono i ragazzi, ed una per le ragazze. Con le ragazze è più difficile comunicare, perché "la donna vive la detenzione in maniera più interiore, in modo più penalizzante. Sono più pacate dei ragazzi, hanno un approccio meno scherzoso, e se riesci a comunicare con loro subito ti rendi conto che il loro problema è la mancanza di affetto, lo svuotamento della vita, il senso di abbandono". Molte di loro sono mamme che tengono con sé in cella i figli, molto spesso piccolissimi. La presenza dei bambini rende la loro detenzione ancora più rigida: non si può fumare in cella e non si può fare confusione. Ma questo le rende anche più attente. "Le donne si sacrificano volentieri, i bambini vengono rispettati e coccolati, sono al primo posto. Anche le altre ragazze diventano più attente, diventano mamme e zie. Il bambino diventa di tutte le donne".
La storia prosegue senza interruzioni, i suoi occhi parlano di tante storie, di solitudine, di amore. Alla paura iniziale di Loreda si sostituisce una grande voglia di ascoltare, e di imparare anche da questi ragazzi, matura in lei il percorso del volontario. "Ho molti debiti con molti di loro. Quando non avevano più remore i ragazzi si aprivano e allora si riusciva a parlare dei giovani, della scuola, a capire le dinamiche, a capire perché si arriva a prendere le sostanze stupefacenti. Loro non condannano tutto questo. È un modo di stare insieme, dicevano" .
I ricordi si fanno più personali, Loreda racconta di Karim, che la sfida e mette alla prova la sua reale volontà di aiutare. E poi, lui, ragazzo straniero, detenuto in un carcere chiede come suo favore personale a lei mamma di non perdere mai di vista suo figlio. Racconta degli occhi di Sebastian che una volta uscito la va a trovare a casa e si interessa della sua famiglia e di suo figlio, che ora ha vent'anni. "Bellissime le sue espressioni quando le persone lo salutavano con affetto, con il cuore".
Chiediamo a Loreda che cosa si possa fare per evitare tutto questo dolore. La sua risposta, che suona come una condanna, è un presa d'atto dei nostri limiti: "Una società civile si riconosce da quanto si carica delle responsabilità, delle colpe e dei fallimenti dei suoi componenti. Se i giovani fanno questo è perché a livello collettivo, manchiamo, a livello di società manchiamo. Condivido molto il messaggio del Cardinal Martini. Gli adulti abbiano la responsabilità e il tempo di ritrovare il tempo per guardare. È chiaro che il carcere ora come ora, per come è strutturato, non aiuta questi ragazzi. Credo che dobbiamo conquistare una mentalità di responsabilità l'uno nei confronti dell'altro. Sono responsabile di te e mi pongo come possibilità di risoluzione di quelli che sono i tuoi problemi, e tu dei miei. È lo sguardo che si deve recuperare, è l'attenzione nei confronti dell'essere umano".

 

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