Pubblicato su politicadomani Num 68 - Aprile 2007

Una storia vera
Salve magna parens frugum et virum, Tellus

di G.

Giobatta aveva abbandonata la terra, quella terra feroce che di generazione in generazione si tramandava di padre in figlio e ognuno l'aveva migliorata a suo modo. Era un piccolo podere, quasi un fazzoletto di terra, coltivato caparbiamente, palmo per palmo, sino al delirio, ove erano sepolti i suoi antenati. Ma il giovane non ne voleva sapere e voleva chiudere con la terra: ogni giorno sentiva irresistibilmente il richiamo della città lontana.
...E un giorno partì per la città lontana: 1'immensa babelica città, dai numerosi camini mentre il solleone di luglio faceva precipitare i suoi raggi sfasciantisi intorno come miliardi di folletti allegri fatti di sola luce e fuoco, balzanti sui muri, rotolanti sui nastri d'asfalto, sulle case, sui giardini, in una baraonda selvaggia e allegra.
In uno stabilimento, in periferia della città, gli operai, malgrado la calura lavoravano tallonati dall'orologio tiranno e dalla catena di montaggio: piccoli uomini, sudati, accaldati, chiusi in tute azzurre e scolorite, muoventisi nervosi ma vigili e attenti, come una piccola folla di marionette telecomandate. Un rumore continuo si alzava lento dal pavimento, stagnava nell'aria viziata, si abbatteva sugli uomini, rimbalzava sul soffitto e sgusciava stanco dalle ampie finestre.
A Giobatta, nei primi tempi, quello strano lavoro sembrava un giuoco da ragazzi ma col passare del tempo quel suono primordiale e inumano lo sentiva sulla pelle, fra le carni, come se avesse addosso milioni di vespe; era un lavoro monotono sino al delirio che lo abbrutiva e lo stancava. E per la prima volta si sentì quasi tradito e irretito, come una mosca a una ragnatela. Una vita da operaio che gli dava da vivere, ma per lui contadino una vita amara e d'inferno. Non poteva amare la fabbrica, forse non l'avrebbe mai amata.
Da tempo, allorché aveva lasciato la terra, aveva ingoiato polvere, rumore e frustrazione. A volte, nei momenti di malinconia profonda, sentiva anche una grande pena per i suoi compagni di lavoro, gente che lavorava in fabbrica da dieci-venti-trenta anni e che si era abituata ad essa come lui alla terra: forse l'amavano! Erano i figli, i nipoti di onesti operai che avevano tramandato quel duro mestiere di vivere. Erano i figli prediletti dei complessi industriali, i custodi fedeli dell'automazione, gli eroi sublimi in tuta azzurra in quel piccolo ma grande mondo meccanico, leva del progresso e della civiltà umana.
Ma per lui, che aveva radici contadine, le cose erano diverse. E col pensiero andava alla cappellina di S. Marco, alla fascia di terra quasi in bilico sul mare, alla sua casa pulita ed ordinata con i muri arabescati di edere e bouganvillee, al piccolo orto, all'uliveto, al campo di grano, al frutteto, al roseto, alla stalletta lillipuziana, al pozzo dell'acqua, agli attrezzi agricoli e alle piccole cose che fanno la felicità del contadino, dell'uomo giusto: quel piccolo mondo agreste, pulito, ordinato che faceva parte di quel tessuto contadino, il tessuto più sano, uno fra i migliori del paese.
Giobatta non si era mai affezionato alla città, quell'alveare di case tutte simili, con la sua folla nevrotica e anonima che stava gomito a gomito e viveva quasi ignorandosi in una disperata e atroce lotta quotidiana per la sopravvivenza.
In campagna è un'altra cosa, gli stessi lavoratori erano dissimili: c'erano i lavori di stagione, le primavere, gli autunni, le estati, gli inverni; c'era il sole, la pioggia, la rugiada, i1 vento. Cera la crisi della terra ed era colpa solo della terra, si diceva; ma la terra non c'entrava affatto, era il sistema sbagliato e di bulloni nessuno aveva vissuto o si era nutrito.
Un urlo improvviso, abissale, come uscito dalle viscere della terra: era tempo di riposo, gli uomini formica si misero in colonna per marcare il tesserino all'uscita, svuotati di dentro ma con un grumo di contentezza nel cuore. Giobatta rimase per ultimo, si voltò indietro con uno scatto nervoso, fissò il grande portone dalle borchie arrugginite, la casetta del sorvegliante, i muri anneriti dal fumo, gli alberi rachitici e sofferenti. Poi si mosse come un estraneo, come se avesse vissuto per oltre un secolo fra le mura dello stabilimento, respirato polvere e rumore, angosce inconfessate, barlumi di felicità e insoddisfazioni profonde.
Partì pochi giorni dopo per il paesello, si sentì rinato, pieno di forze e di energie come se fosse uscito miracolosamente per la seconda volta dall'utero materno e rimbalzato, per prodigio, nel grembo della grande madre terra, vita e nutrimento di ogni creatura.

 

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Num 68 Aprile 2007 | politicadomani.it