Pubblicato su politicadomani Num 67 - Marzo 2007

Trattamento
A teatro con Antonio Lauritano
Il regista, che lavora da quasi 15 anni con i detenuti a Rebibbia, a Regina Coeli e ultimamente anche a Velletri, ha raccontato a "politicadomani" la sua esperienza, le sue emozioni e le sue aspirazioni

a cura di Maria Mezzina

pd - Che cosa l'ha spinta a lavorare con i detenuti?
È stato per caso. Frequentavo e frequento il teatro di via Speroni che si trova di fronte al carcere di Rebibbia. C'era lì un detenuto in semilibertà che mi disse che si poteva fare teatro con i detenuti nella terza casa, fra i tossici. Non avendo mai fatto questa esperienza ero più incuriosito che altro. Conobbi lì Lia Digiorgio che adesso è anche educatrice di Velletri. Cominciai così a fare attività con loro. Mi è piaciuto subito quello che stavo facendo. Io parto dal presupposto che non esiste miglior egoista dell'altruista nel senso che si riesce a quadrare il cerchio se si fa qualcosa per se stessi che, probabilmente, vada bene anche per gli altri. In carcere mi sono sempre trovato molto bene. Non ho mai avuto grossi problemi perché probabilmente, paradossalmente, forse è il luogo meno ipocrita in cui uno possa vivere: ognuno sa infatti perfettamente chi è l'altro e non c'è bisogno né di ipocrisie né di infingimenti. Ed è anche bello, in un certo senso, cercare di dare e, più che di dare, stimolare una sfera emozionale che probabilmente, per vari motivi, è stata abbastanza messa in second'ordine. È una cosa che, fortunatamente, meraviglia sempre vedere la commozione su persone che probabilmente mai avrebbero pensato di potersi emozionare così tanto, a livello quasi di piangere, per uno spettacolo teatrale, come è successo venerdì scorso. Il teatro secondo me è una delle forme più belle di trattamento perché dentro ci sono delle persone che, giuste o sbagliate che siano, hanno infranto delle regole, e, paradossalmente, il teatro dà loro la sensazione di essere liberi all'interno di regole. Perché il teatro è una delle cose più regolate che ci possano essere. Per questo, alla fine, si sentono liberi. E credo che questo potrà, un giorno, forse, servire anche fuori.

pd - Lei lavora in Rai. La sua esperienza nel carcere ha in qualche modo, paradossalmente, condizionato il suo lavoro come regista in Rai?
L'esperienza mi ha segnato non tanto nel mio lavoro in Rai quanto nel mondo esterno, nel mondo, diciamo così, del "fuori". Prima di tutto perché c'è un discorso di problemi tuoi personali che, quando entri dentro il carcere, si dimenticano: quello che credi che conta e che sembrava enorme, insormontabile diventa infinitamente più piccolo a fronte dei problemi di chi sta lì dentro e che ha problemi di altro tipo, molto più pressanti, molto più importanti, in un certo senso, anche se sono legati comunque a delle scelte. Il carcere a me ha dato il senso del recupero dell'esatta dimensione dei problemi personali. Probabilmente le persone che non hanno questa fortuna (per me è tale) hanno difficoltà a vedere esattamente la realtà delle cose che li circonda. Come anche hanno difficoltà ad apprezzare le sensazioni che noi tutti viviamo nella routine, o, se vuoi, le piccole cose che nel tran tran quotidiano abbiamo dimenticato di apprezzare. Insomma, alla fine ti rendi conto che dentro ogni piccolo gesto diventa faticoso. Ti faccio un esempio: per prendere un gelato bisogna fare una, due, tre domandine, si capisce allora che, forse, la possibilità di poterlo mangiare senza problemi è una fortuna. È un condizionamento, questo, una consapevolezza che si verifica non tanto in Rai quanto, invece, nel mondo esterno del lavoro, degli affetti, delle amicizie, della vita quotidiana.

pd - Proprio parlando di affetti, questo suo impegno, che evidentemente è molto particolare, è sostenuto da chi le sta vicino, i suoi amici, la sua famiglia, le persone a lei più care? E come?
Si, devo dire di si. Partecipando spesso e volentieri, e quindi venendo anche a vedere gli spettacoli, o a seguire qualche prova, quando questo è possibile. Ma soprattutto è un sostegno che si manifesta in un'altra forma: a volte, sai, la cosa più difficile non è tanto partecipare quanto non impedire. Ma non "impedire" nel senso proprio di costringere uno a non fare qualcosa, quanto nel senso di avallare, anche se non si capisce. Voglio dire che l'amicizia, la famiglia, gli affetti sono quelli che dovrebbero "fidarsi": anche se non si capisce la portata, o l'importanza di qualcosa, proprio perché ci si fida della persona si dovrebbe appunto avallare quello che essa fa senza neanche farsi troppe domande. Soprattutto poi quando è chiaro che questo stimola, o provoca anche, se vogliamo, non dico felicità, che mi sembra eccessivo, ma serenità, ecco, serenità nella persona. Che in questo caso sono io.

pd - Passiamo ora dal piano personale a quello più professionale. Che tipo di scelta fa per la rappresentazione teatrale di un lavoro fatto con i detenuti? Sono loro che scelgono? È lei che guida? Come si fa la scelta del copione da rappresentare?
Io non credo ci sia una ricetta. Il carcere lo fanno i detenuti, quindi ogni carcere è a se stante. Non esiste "il carcere", esiste un tipo di carcere che è diverso da un altro tipo di carcere: sono diversi i detenuti, quindi sono diverse le persone. A volte sono io che porto un testo. Normalmente, come nel caso di Velletri, tendo a conoscerli prima e a cercare di entrare, non dico in confidenza, ma in relazione, ecco. Perché imporre un copione dall'esterno, non dall'esterno nel senso "da fuori", ma dall'esterno nel senso di senza conoscere le storie, senza conoscere i caratteri, i temperamenti, le facce, i volti, i comportamenti, gli atteggiamenti, le persone fisiche, è veramente una cosa fredda. Normalmente all'inizio, quando tratto con loro per la prima volta, sono io che scelgo. Ma non per un'imposizione: è perché, a volte, non si hanno neanche i mezzi di conoscenza del copione teatrale. Ma andando avanti, come a Velletri dove continueremo questa attività teatrale (il Direttore vuole a tutti i costi che si continui, quindi io sono ben felice di continuare, insieme a Terry Gisi, la mia storica assistente di tutto), si arriva quasi ad una specie di autogestione nella scelta dei copioni. Ma solo più avanti. All'inizio sarebbe quasi metterli in difficoltà.

pd - Un po' come fa l'insegnante con i ragazzi in classe
Certo. Io ho insegnato per due anni nella scuola elementare e questo mi è servito molto nel carcere.

pd - Ecco, come trova lei questo rapporto con le persone che si trovano in carcere, facile, difficile? E come sente che gli altri percepiscono lei? Almeno all'inizio, perché è evidente che dopo le cose cambiano
Ci si pesa, all'inizio. Ci si guarda, ci si scruta. Si cerca di capire il carattere, la tipologia, se ci si può fidare. E quelli che sono lì dentro hanno fatto delle scelte, nel passato, ed è chiaro che sono molto bravi a capire le persone, a pesarle. Diciamo che più che accettare io loro, sono loro che accettano me. Un po' come quando si sta davanti a un gruppo di bambini. È difficile. Cioè, tu li puoi anche accettare, ma non è detto che loro accettino te. È un fatto proprio, come dire, di plasmarsi l'uno con l'altro, di smussare i vari angoli, di capire se a quel bambino o a quella persona, nel caso dei detenuti, possa dar fastidio un comportamento o un altro e di cercare, quindi, di evitarlo. Fino ad arrivare poi anche, non dico nell'intimità che mi sembra eccessivo, ma ad una relazione molto profonda. Comunque, poi, è anche la condivisione che dà la relazione.

pd - E nel teatro questo è essenziale
Esattamente. Qui ci si mette veramente in discussione. Come ha visto, abbiamo voluto - io, ma non solo io, tutti quanti noi, detenuti compresi, lo staff, gli educatori e tanti altri - rendere quello spazio un qualcosa al di fuori: un'altra dimensione. Quasi per dare a quello spazio particolare la sensazione un po' di "Tempio" - per me il teatro come struttura è un Tempio - e un'altra dimensione, come una specie di ponte sospeso fra una realtà che i detenuti vivono normalmente e una realtà a cui tendono, il "fuori": una realtà che sia anche diversa, diversificata rispetto alla cella o ai luoghi di normale socialità che loro frequentano. Tutto ciò per dare anche importanza a quello che stanno facendo.

pd - A questo proposito, mi ha molto colpito l'introduzione alla rappresentazione fatta dal "narratore". Quella particolare introduzione è qualcosa che hanno inventato loro?
Diciamo che è stato un lavoro comune. La traccia l'ho data io partendo dal presupposto che il personaggio facesse il suggeritore, all'inizio. Ci è venuto in mente che il suggeritore è una persona che normalmente si nasconde. Partendo dal presupposto che il suggeritore è uno che si nasconde è facile poi arrivare al discorso del nascondere. Il carcere è un luogo che nasconde: normalmente la società nasconde i propri errori. Io credo che il carcere sia forse il monumento massimo degli errori di una società: invece di risolvere, normalmente tende a nascondere quelli che possono essere stati gli errori, gli sbagli o quello che sia. E il suggeritore è proprio un po' emblematico in questo: è una persona che comunque c'è ma non si deve vedere. E in quel caso ci è venuto in mente di buttare giù quelle poche righe proprio per dare un senso, e che basta nascondersi.

pd - Io le ho trovate molto forti, messe proprio lì all'inizio della rappresentazione teatrale
Io non amo fare degli spettacoli che appaghino, come dire, il senso di "buonismo" delle persone, preferisco che esse si interroghino. Per carità, non mi piace essere didascalico. Mi piacerebbe nel mio infinitesimo, nel mio piccolissimo, cercare di fare il maieutico nello stimolare anche nelle persone fuori il porsi delle domande a cui non hanno mai risposto e alle quali, probabilmente, non sanno dare risposta. Ma, comunque, cominciare a farsi delle domande è fondamentale.

pd - Un'ultima domanda. Ha detto che continuerà questo tipo di lavoro nel carcere di Velletri. So che ha lavorato e che continua a lavorare anche a Rebibbia. C'è un progetto, o almeno nella sua mente, un qualcosa, un qualche contatto fra queste due realtà, il carcere di Rebibbia e quello di Velletri?
Si, c'è. Io a Rebibbia ho cominciato nel 1993 e ci sono stato fino al '96/'97. Poi ho seguito il direttore Mauro Mariani a Regina Coeli, continuando con lui. Sono tornato a Rebibbia un paio di anni fa e abbiamo sostenuto questa compagnia fatta di semiliberi, articoli 21 e altre persone che ancora non accedono alle misure cosiddette alternative. E con loro ho fatto questa cosa ai Parioli, il 6 di gennaio, che ha molto colpito Costanzo ("Tutti i colori della notte" della Compagnia "Stabile Assai" di Rebibbia, Teatro Parioli, 6 gennaio 2007, n.d.r.). Uno spettacolo che ci è stato chiesto di replicare da più parti. La compagnia sta camminando al di fuori e al di là di quello che può essere il discorso carcerario. Mi piacerebbe che essa diventasse un punto di riferimento anche per altri. Mi spiego. Lei ha visto, nella rappresentazione a Velletri, la persona che fa Scrooge: ha talento e non mi dispiacerebbe se, nel momento in cui avesse concluso, o comunque cominciasse a stare in semilibertà, di inglobarlo nella compagnia. Mi piacerebbe che la compagnia diventasse una specie di "faro", fra virgolette - mi permetta la frase - per coloro che all'interno degli istituti fanno teatro. Poi, una volta usciti, essi sanno che c'è una realtà, una struttura, un'organizzazione, che potrebbe inglobarli e far continuare loro, anche fuori, un'esperienza teatrale che probabilmente è appagante. Anzi, è certamente appagante.

 

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