Pubblicato su politicadomani Num 67 - Marzo 2007

Non solo elezioni
Nuova legge elettorale e riforme
Dopo la bocciatura del Referendum costituzionale, si riapre il dibattito

 

Giorgio Napolitano invitando Prodi ad affrettare una nuova legge elettorale ha di fatto riaperto il dibattito sulle riforme costituzionali. Già 10 anni fa vennero ascoltati in Parlamento alcuni fra i più autorevoli esperti in diritto costituzionale e nel paese iniziò un dibattito acceso che terminò con il fallimento della bicamerale. Ora il dibattito sembrerebbe riaprirsi e vale quindi la pena offrire ai nostri lettori due interventi dell'epoca perché siano chiari i termini del problema.
Gli interventi sono del Prof. Enzo Cheli, (Ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Firenze) e del Prof. Giovanni Sartori (Storico e politologo di esperienza e fama mondiali).

 

Commissione Bicamerale
Neoparlamentarismo e modello Westminster
Prof. Enzo Cheli
(Comitato Forma di Governo - Verbali della audizione del 20.03.1997)

Gli elementi che secondo la dottrina distinguono il modello neoparlamentare nelle sue varie espressioni (perché esistono varie forme di neoparlamentarismo) sono molteplici. Essi vengono individuati, in particolare: nella presenza del voto di fiducia; nella tendenza verso governi di legislatura fondati sulla coincidenza tra leadership e premiership; nella presenza di meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo, con una gravitazione dell'indirizzo politico nell'area del premier (cioè con lo spostamento dell'area dell'indirizzo politico dalla collegialità del governo alla persona del primo ministro); infine, nella netta distinzione dei ruoli tra Capo dello Stato e Primo ministro, al quale ultimo spettano i poteri di indirizzo mentre al primo spettano ruoli di garanzia legati alla rappresentanza dell'unità nazionale.
Mi sembra che i modelli praticabili che oggi sono all'esame di questo comitato siano sostanzialmente quattro, nel senso che dalla sommaria lettura dei numerosissimi progetti presentati in fondo emergono quattro idee praticabili. La prima è quella del governo del premier secondo il modello inglese (che poi è per molti aspetti prossimo a quello spagnolo); la seconda è il cancellierato secondo il modello tedesco; la terza è il governo del premier eletto direttamente dal corpo elettorale (cosiddetto modello israeliano); la quarta è il semipresidenzialismo di tipo francese.
Di questi quattro modelli, i primi due (il modello Westminster ed il cancellierato) si collocano nel solco della tradizione parlamentare; gli altri due (il semipresidenzialismo e l'elezione diretta del primo ministro) seguono invece la tradizione presidenziale.
Non sarei pertanto orientato a condividere la posizione di chi qualifica il modello di premierato eletto dal popolo come una variante del modello neoparlamentare. È vero che in questo modello di premier eletto direttamente dal popolo rimane in vita la fiducia, ma l'istituto è del tutto oscurato, praticamente azzerato dal fatto che il premier riceve direttamente l'investitura dal popolo. Pertanto questo modello, a mio avviso, è molto più prossimo al modello presidenziale, ed è sicuramente il più lontano dal modello parlamentare, più lontano di quanto non lo sia il semipresidenzialismo francese: nell'ordine di scostamento dal modello parlamentare classico, metterei prima il modello Westminster, poi il cancellierato, poi il semipresidenzialismo francese ed infine l'elezione diretta del premier, perché secondo me lì siamo ai confini del presidenzialismo.
Mi sembra dunque che il discorso sul neoparlamentarismo, per quel che riguarda i modelli che il comitato sta esaminando, si concentri sostanzialmente su due ipotesi, l'ipotesi del governo del premier secondo il modello Westminster e l'ipotesi del cancellierato, nonché sulle varianti di questi due modelli.
Di essi, quello che dispone del maggior tasso di flessibilità è, a mio avviso, certamente il modello Westminster, nel quale i poteri formali del premier corrispondono di volta in volta, senza forzature, ai poteri sostanziali derivanti dall'assetto politico del sistema. Questo modello non si limita alla disciplina costituzionale, ma lascia larghi spazi alla legge elettorale, ai regolamenti parlamentari, alle norme convenzionali, alla prassi. Perciò esso presenta il massimo grado di elasticità anche per l'organizzazione delle fonti intorno al modello stesso. Non solo: credo anche che questo modello sia il più prossimo alla tradizione culturale e alla storia costituzionale di lungo periodo del nostro paese. Pertanto, ove si dovesse orientare la scelta della forma di governo su un modello neoparlamentare, quello a mio avviso più consigliabile sarebbe proprio il modello Westminster.
Conosciamo naturalmente l'obiezione che viene fatta ogni volta che si propone questo modello: chi lo propone, viene considerato uno che vive sulla luna. L'obiezione che normalmente si fa al richiamo per l'Italia del modello Westminster è che il modello inglese non sarebbe esportabile in Italia, per la semplice ragione che risulta fondato su un presupposto, il bipartitismo, che da noi non esiste. Questo è sicuramente vero, ma a mio avviso non è sufficiente per farci escludere che attraverso la riforma che stiamo avviando si possa tentare quanto meno di avvicinare il nostro sistema politico alle condizioni di base, alle condizioni di fatto che consentono al modello Westminster di funzionare nel suo paese.
Per avvicinare queste condizioni del nostro sistema al modello inglese, risulta in ogni caso necessaria un'azione riformatrice orientata su due linee, una che muova dal basso ed un'altra che muova dall'alto. Ma devono essere due linee contestuali: dal basso, attraverso la legge elettorale; dall'alto, attraverso congegni di stabilizzazione dell'esecutivo e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione del governo. Ritengo pertanto che non sia impossibile colmare, sia pure gradualmente (è evidente che bisogna accettare un criterio di gradualità necessaria), il distacco che oggi separa il contesto italiano da quello inglese, il nostro multipartitismo estremo dal bipartitismo anglosassone, ove si voglia agire sul doppio pedale della legge elettorale da un lato e dei meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia del governo dall'altro. Lavorando congiuntamente su questi due pedali, c'è la possibilità di arrivare non ad una identificazione in tempi brevi, ma ad un avvicinamento consistente, che può anche rendere ragionevole per l'Italia l'ipotesi Westminster.
In altri termini penso che, mancando la possibilità di far coincidere oggi in Italia leadership e premiership per l'assenza del presupposto di base del bipartitismo, di un bipartitismo consolidato ed omogeneo, si possa pur sempre sin d'ora avviare dal basso, attraverso la legge elettorale, un processo di graduale riduzione della frammentazione e di accorpamento delle forze politiche su poli omogenei (del resto, esso in parte è già iniziato); ed avviare dall'alto un processo in grado di consentire la premiership al leader del partito che ha preso più voti, anche se questo partito esprime non la maggioranza assoluta, ma solo una maggioranza relativa del paese.
Se questo è vero, tutto ciò conduce naturalmente a sottolineare il peso, a mio avviso, decisivo e pregiudiziale della legge elettorale. I congegni di stabilizzazione e i congegni di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo seguono, non precedono, la legge elettorale. Perciò è abbastanza rischioso invertire questo ordine di problemi nel momento in cui si affronta la riforma della forma di governo, almeno se si vuole perseguire il modello neoparlamentare.
Credo che questa linea di azione dall'alto e dal basso, per ridurre da un lato la frammentazione attraverso la legge elettorale e dall'altro il tasso di inefficienza e di debolezza del Governo attraverso meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo, sia in questo momento la più realista, perché con una certa coerenza consente di completare un processo che è già stato avviato, il processo relativo alla riforma maggioritaria del 1993, senza indurre brusche sterzate in un percorso che oggi è appena avviato.

 

Come votare? Dibattito aperto sulle riforme
Il peggior sistema politico d'Europa
Giovanni Sartori
(Corriere della Sera, 6.01.1999)

A che punto siamo? In economia siamo a buon punto. Con il 1999 esordisce l'euro, la moneta comune europea; e grazie a Ciampi e Prodi noi siamo dentro. Evviva. In politica, invece, non siamo a nulla. Il 1999 promette soltanto di perpetuare il marasma che dura da due legislature. Angelo Panebianco ha quindi l'intuizione giusta quando ci invita in apertura d'anno - nel suo fondo del 3 gennaio - a ripartire dalle premesse, e cioè a inquadrare il problema. Secondo il mio stimato amico e collega il problema è che il referendum elettorale del 1993 pone e impone una "concezione maggioritaria della democrazia" che però resta incompiuta perché ostacolata dal retaggio della "democrazia proporzionalistica". Accolgo l'appello di Panebianco. Ma non accolgo le sue premesse.
La distinzione tra democrazia maggioritaria e democrazia proporzionalistica esiste da una cinquantina d'anni. Ma nella versione che oggi prevale nella letteratura internazionale (quella di Arend Lijphart) la democrazia migliore è quella proporzionalistica, mentre nella sua versione italiana (di Panebianco e altri) la democrazia migliore è quella maggioritaria. Il che non dimostra che il maggioritarismo elogiato da Panebianco sia sbagliato, ma dimostra che è opinabile.
In sintesi, dato un sistema elettorale maggioritario Panebianco ne ricava le conseguenze che enumero appresso: 1) che tra elettori e eletti si instaura un vincolo di mandato, 2) vincolo che impone un divieto di ribaltone, e quindi 3) nuove elezioni per ogni crisi di governo. Dal che si ricava, riassuntivamente, 4) che il sistema elettorale maggioritario assicura, di regola, governi forti e stabili. Dissento su tutto. Come passo a spiegare.
1) Esiste un mandato elettorale? Tanto per cominciare la nostra Costituzione lo vieta (articolo 67: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"). Pertanto i nostri maggioritaristi costruiscono il loro edificio interpretativo in violazione di un preciso e fondamentalissimo disposto costituzionale. Il loro primo passo dovrebbe dunque essere di chiederne l'abrogazione. Invece fanno finta di niente. Forse perché coloro che sanno - gli studiosi - sanno benissimo che per la teoria della rappresentanza la loro tesi è inaccoglibile.
2) Dove sta scritto che i cosiddetti ribaltoni sono da vietare? Nella dottrina dei sistemi parlamentari sicuramente no. Il caso esemplare è a questo effetto il caso inglese, visto che l'Inghilterra vota con un sistema integralmente maggioritario. Eppure a Westminster il reato di ribaltone è ignoto. Se un governo cade, il primo dovere del sovrano è di accertare se in Parlamento esistano maggioranze di ricambio. Il problema si pone di rado perché l'Inghilterra è bipartitica e ogni elezione produce quasi sempre un vincitore assoluto che governa da solo. Ma nel 1976 il premier laburista Wilson si dimise e fu sostituito da Callaghan senza che nessuno denunciasse un tradimento di mandato. Idem come sopra quando la Thatcher venne sostituita in corso di mandato da Major. Ancora: nel 1977 il governo Callaghan perse la maggioranza e rimediò - governando ancora per due anni - alleandosi con i liberali. Cosa impediva a Prodi di fare lo stesso, esattamente lo stesso, nell'ottobre scorso? Rispondo: l'autoinganno. Prodi è una vittima dei suoi paraocchi, dell'aver creduto in una dottrina praticata al mondo soltanto da lui. Si capisce che un governo può essere fatto cadere per ragioni vergognose. Non ne consegue che sia di per sé vergognoso far cadere un governo. Molti cosiddetti ribaltoni possono essere utili e necessari. Vietarli in linea di principio snatura e inceppa (senza merito) il funzionamento del sistema parlamentare.
3) Nuove elezioni a ogni ribaltone? Questa è una terapia che può anche aggravare il male. Perché il "voto continuo" stanca l'elettore, e per di più lo irrita quando si accorge che rivotare non serve a nulla (visto che spesso lascia le distribuzioni di voto come erano). Panebianco considera l'obbligatorietà del rivotare un deterrente, e si chiede se questo obbligo non avrebbe bloccato lo strappo di Bossi a Berlusconi nel '94, e lo strappo di Bertinotti a Prodi nel '98. Secondo me, no: Bossi e Bertinotti avrebbero "strappato" lo stesso. Perché la regola è che chi si aspetta di guadagnare da una nuova elezione (e questa era, per esempio, l'aspettativa di Rifondazione) è disposto a accettarne la fatica.
4) Elezioni maggioritarie producono governi forti e durevoli?
Dall'esperienza italiana si evince che la risposta è no, proprio no. Chi rifiuta di capirlo si aggrappa al pretesto che l'insuccesso italiano è dovuto al 25 per cento di quota proporzionale che rende impuro, con il Mattarellum, il nostro maggioritarismo. Ma questa risposta è sicuramente sbagliata. Io appoggio il referendum perché obbliga i partiti a cambiare legge elettorale. Ma non mi illudo (come sono sicuro che nemmeno Panebianco si illude) che la nostra proliferazione di partitini sarà curata da un sistema interamente maggioritario a un turno. E qui vengo al punto. Il Pannellismo ci ha indotti a credere che esista un contrasto manicheo e pressoché metafisico tra sistemi elettorali puramente maggioritari e sistemi puramente proporzionali. Non è così. In Italia il maggioritarismo alla Pannella ci lascerebbe con circa 10 partiti, mentre il proporzionalismo spagnolo o tedesco (sì, anche la Germania produce un parlamento perfettamente proporzionale) ha generato un bipolarismo funzionante che è molto vicino al bipartitismo. In concreto il problema non è dunque di scegliere tra due massimi sistemi ma di stabilire, invece, quale maggioritario, o altrimenti quale proporzionale, sia in grado di risolvere il caso italiano, il caso da risolvere.
Sia chiaro: io attribuisco al sistema elettorale una importanza non minore di Panebianco. Ma per me il sistema elettorale è importante perché fornisce al sistema politico le gambe con le quali andrà a camminare, mentre per Panebianco il sistema elettorale è importante perché permea tutto il sistema politico e così trasforma il sistema parlamentare che abbiamo in un sistema che non lo è più (e che non sappiamo, nella sistematica dei sistemi politici, che tipo di animale sia).
Anno nuovo, idee nuove? Certo è che l'anno nuovo ci dovrebbe indurre a discutere e rivedere le idee che hanno creato il peggior sistema politico dell'Europa occidentale.

 

Homepage

 

   
Num 67 Marzo 2007 | politicadomani.it