Pubblicato su politicadomani Num 67 - Marzo 2007

India britannica
Imperialismo, tra luci ed ombre
Il dominio coloniale inglese ebbe notevole influenza - in positivo e in negativo - sullo sviluppo, l'economia e l'organizzazione politica e sociale del continente indiano

di Alberto Foresi

Il dominio britannico sull'India vide il suo inizio intorno alla metà del 18° secolo, con la conquista del Bengala, e si assestò definitivamente dopo il 1840, con la sottomissione dello stato sikh del Punjab. Si trattò di una forma di colonizzazione del tutto particolare rispetto ad altri schemi coloniali allora diffusi: non fu infatti condotta direttamente dalla monarchia inglese ma da una società per azioni privata, sia pure posta sotto il controllo del parlamento, quale la East India Company. Interesse della Compagnia non era instaurare un vero e proprio dominio politico sul territorio, estromettendo i potentati locali, quanto piegarli in modo che accettassero la sua egemonia economica. La politica di sfruttamento messa in atto dalla Compagnia faceva perno su due elementi fondamentali: la riscossione delle tasse e la commercializzazione del surplus produttivo indiano. Questo secondo elemento era di fondamentale importanza in quanto mirava a controbilanciare il saldo negativo delle importazioni britanniche da Oriente. In pratica venivano vendute in Cina e nel Sud-Est asiatico prodotti indiani, prima di tutto oppio e cotone, e in cambio si compravano seta, tè e porcellane da rivedersi in Inghilterra e nelle altre nazioni europee. In particolare il commercio dell'oppio rappresentò, per tutto il XIX secolo, una delle colonne dell'economia indiana e la seconda fonte fiscale per l'amministrazione dell'impero coloniale indiano.
Fra il 1820 e il 1830, con l'aumento della produzione britannica, diretta conseguenza del processo di industrializzazione allora in atto, l'India divenne uno dei mercati privilegiati per l'esportazione delle merci inglesi. Ruolo preminente ebbero i filati e il cotone prodotti industrialmente a basso costo a Manchester che, grazie all'assenza di qualsiasi barriera doganale, invasero il mercato indiano, distruggendo in pochissimo tempo l'artigianato cotoniero indigeno. È da sottolineare che l'operato della East India Company non trovò particolare ostacoli nei ceti dominanti locali, i quali investirono parte delle proprie ricchezze nelle imprese commerciali ricavandone cospicui guadagni. E non fu solo una collaborazione economica: le élites locali accettarono di buon grado il processo di anglicizzazione promosso dagli Inglesi tra XIX e XX secolo. I figli delle famiglie facoltose indiane andarono in Inghilterra a studiare nelle più prestigiose università, assorbendo la cultura dei dominatori. Processo, questo, che si rivelò in parte controproducente per gli stessi Inglesi in quanto la gioventù indiana proprio a contatto con la civiltà europea cominciò ad assorbire ed elaborare dottrine di stampo nazionalista ed indipendentista, le stesse che alla fine portarono l'India a conseguire l'indipendenza nel 1947.
La gestione della East India Company si concluse nel 1858, allorché, dopo lo scioglimento della società, l'India divenne ufficialmente parte della corona britannica. L'importanza della colonia fu presto evidente anche alla regina Vittoria, che dimostrò subito un grande interesse per questo suo nuovo patrimonio, tanto che prese lezioni di Hindi, e nel 1876 assunse il titolo di Imperatrice d'India.
Per tutto il XIX secolo l'India rimase il perno economico essenziale dell'impero coloniale britannico, oltre che primaria fonte per l'arruolamento della massa delle sue truppe, reclutate fra le minoranze di tradizione guerriera come i sikh, i rajput e i gurka.
La spaventosa serie di carestie che sconvolse l'India alla fine del secolo cominciò a rendere palese il fatto che l'India un poco alla volta stava divenendo ormai un limone spremuto. Lo dimostrava peraltro inequivocabilmente il costante declino della partecipazione dell'India al commercio mondiale, passata dal 10 per cento intorno al 1800 al 2 per cento un secolo dopo. La prima guerra mondiale rappresentò un periodo cruciale anche per l'India, non solo per l'enorme costo economico e umano del conflitto, ma anche per la mancata concessione dell'autonomia politica tante volte promessa dalla Gran Bretagna e non attuata per l'irrealistico timore da parte della classe dirigente inglese che la rivoluzione d'ottobre avvenuta in Russia potesse estendersi al subcontinente. Timore che era del resto pienamente condiviso dalle stesse élite indiane.
È arduo trarre un bilancio del dominio inglese sull'India: da una parte è senza dubbio vero che, nonostante la politica di sfruttamento sistematico, il dominio coloniale ha senza dubbio contribuito all'evoluzione materiale e sociale del paese: sotto gli Inglesi furono costruite infrastrutture di fondamentale importanza, fra le quali una rete ferroviaria allora fra le più estese del mondo e un moderno sistema telegrafico, che permisero di creare un'unità geografica del paese. Merito degli Inglesi fu anche la creazione di un'organizzazione politico-amministrativa, caratterizzata da una burocrazia di tipo moderno (nel 1844 gli inglesi introdussero il sistema di concorsi pubblici per accedere ai posti di lavoro nell'amministrazione pubblica, sistema che solo un anno più tardi sarebbe stato introdotto anche in Inghilterra) e, in un secondo momento, da un sistema amministrativo - a livello locale - di tipo liberale, con organi di autogoverno. D'altra parte è anche vero che la situazione indiana prima del dominio britannico non era così catastrofica come è stata spesso descritta dagli storici anglosassoni.
A metà del 1700 il millenario Impero indiano si stava progressivamente disgregando, tuttavia al suo interno stavano nascendo delle nuove compagini statuali di tipo moderno, caratterizzate da governi fortemente centralizzati, da efficienti amministrazioni e da eserciti preparati e ben equipaggiati. Anche a livello produttivo, l'economia indiana era vitale, soprattutto nel campo tessile e manifatturiero, e un certo benessere, grazie al commercio a livello mondiale di questi prodotti, cominciava a diffondersi in ampi strati della popolazione. Lo sfruttamento posto in atto dalla East India Company e, poi, direttamente dal governo britannico impedirono lo sviluppo di questi fermenti di crescita.
Anche a livello sociale il ruolo dei colonizzatori appare ambiguo. Fu attuata una meritoria campagna volta a sradicare usanze che, agli occhi occidentali parevano barbare e primitive, quale, ad esempio, il Sati, cioè l'uso di immolare la vedova sulla pira dello sposo defunto. Al contempo, però, gli Inglesi trasformarono il sistema delle caste, da fluido e concretamente non gerarchico, in chiuso e gerarchico. Per governare una nazione così ampia e sconosciuta, gli inglesi decisero di studiare il funzionamento della società indiana. Nasce in questo periodo, ad opera di funzionari-uomini di cultura inglesi, tra cui Sir. William Johns, la corrente scientifica dell'Orientalismo. Questi intellettuali, oltre a studiare la lingua, cominciarono a stabilire collaborazioni con intellettuali indiani. La loro scelta cadde, purtroppo o forse consapevolmente, su quegli intellettuali che durante il periodo precoloniale erano stati emarginati e non facevano parte dei collaboratori della corte. Nel confronto con questi personaggi, gli Inglesi andarono alla ricerca delle origini della cultura indiana, convincendosi che la vera essenza della legge e della civiltà indiana fosse contenuta in leggi antiche che erano rimaste ignorate dai governatori del periodo precoloniale. Per riportare in vita queste leggi fu emanata una serie di disposizioni volte a stabilire i diversi diritti e doveri dei sudditi: si proibì a certi gruppi castali, solitamente formati da mercanti, di prestare denaro ad altri gruppi castali di contadini, concretizzando divisioni prima esistenti solo teoricamente; si decise che la responsabilità per un debito dovesse coinvolgere tutti i membri della famiglia allargata, rafforzando così un'istituzione sociale (gravida di pesanti conseguenze) che in realtà stava gradualmente scomparendo.
Lo Stato coloniale quindi, non solo accettò la divisione in caste, ma cristallizzò l'organizzazione gerarchica di queste caste, attuando di fatto un comportamento totalmente inverso a quello che si stava utilizzando in Europa per portare avanti processi di modernizzazione: anziché procedere attraverso un processo di omogeneizzazione culturale, sociale, economica e religiosa, l'impero coloniale britannico divise i suoi sudditi e li organizzò gerarchicamente. Una strategia del "divide et impera" che garantiva l'Inghilterra da possibili rivendicazioni popolari collettive.

 

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