Pubblicato su politicadomani Num 67 - Marzo 2007

Il coraggio della ribellione
Fate buona economia
Da un libro di Nando dalla Chiesa su sei donne esemplari, una lezione di buona economia

di Marco Vitale

Un gran bel libro, quello di Nando dalla Chiesa, scritto con molto sentimento spirito di verità e capacità letteraria, "Le Ribelli, storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore" (Melampo ed. 2006, pag. 150). Un libro che, apparentemente, non c 'entra nulla con l'economia. Parla di donne coraggiose che si sono ribellate alla violenza della mafia ed alla cultura mafiosa. Ribelli per amore. Sono sei storie esemplari, sei profili di donne, molto diverse tra loro ma tutte disperate e coraggiose, che attraversano mezzo secolo di storia siciliana e italiana.

Francesca Serio
Mi ha colpito il fatto che come prima storia Nando dalla Chiesa abbia scelto quella di Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, un giovane coraggioso sindacalista di Sciara, paesino in provincia di Palermo, assassinato il 16 maggio 1955 per la sua indomita lotta a favore dei diritti dei contadini e degli operai della cava del paese. Mi ha colpito perché quando avvennero i fatti Nando dalla Chiesa aveva sei anni. Io invece ero al liceo e ricordo perfettamente i fatti e la figura di Salvatore Carnevale e di Francesca Serio. L'assassinio di Salvatore mi fece capire, per la prima volta, che cosa è la violenza mafiosa. Ma la forza, il coraggio, la lucidità e la dignità con le quali Francesca Serio lanciò le sue accuse contro gli assassini ed i mandanti, rompendo il costume omertoso, sino ad inchiodarli, con l'assistenza processuale di Sandro Pertini, alla condanna a quattro ergastoli, non li ho mai dimenticati. La sentenza di primo grado fu annullata dalla Corte d'Appello e di Cassazione per insufficienza di prove e il procuratore generale, Tito Parlatore, sostenne che la mafia è "una materia di conferenze". Francesca Serio fu così dalla Cassazione iscritta nel lungo elenco dei vinti. Ma è proprio questa indomita figura di donna, che mi stampò nel cuore la convinzione che, un giorno o l'altro, la Sicilia, e con lei l'Italia, si sarebbe liberata dalla peste, convinzione che ha sempre alimentato la mia speranza, anche nei momenti più cupi, come quelli attuali. E Ignazio Buttitta, nel 1956, dedicò a Salvatore il "Lamentu pi la morte di Turiddu Carnevali", certamente tra i versi più coinvolgenti del poeta siciliano: "Ancilu era e nun avia ali / nun era santu e i miracoli facia".
Qualche decennio dopo, partecipando ad una cena a Parigi in una casa di nobili banchieri francesi, avendo detto che il giorno dopo sarei andato a Palermo, mi sentii apostrofare da una matura contessa con queste parole: "ma cosa va a fare in quella terra di barbari mafiosi". Le risposi che andavo per ricordare quelli che erano caduti nella battaglia contro la mafia, per difendere anche lei e me dalla diffusione della peste. E le parlai di Salvatore Carnevale, di Placido Rizzotto, di Petrosino, del generale dalla Chiesa, di Falcone e di Borsellino.
La vicenda di Salvatore Carnevale pose una specie di suggello finale ad un'epopea, l'unica epopea della Sicilia moderna, insieme a quella dei fasci siciliani, iniziata con i decreti Gullo che nel '44 avevano deciso l'assegnazione delle terre incolte ai contadini senza terra e che scatenò la reazione violenta. Fu una reazione costellata da centinaia di morti tra i quali i più combattivi dirigenti del movimento contadino e sindacale, da migliaia di arresti, da stragi come quella di Portella della Ginestra. Questa stagione segnò la sconfitta della Sicilia democratica e la prima saldatura del blocco agrario, mafia, potere politico. Tutto quello che segue negli ultimi 50 anni incomincia da lì.

Rita Borsellino
L'ultima storia è quella di Rita Borsellino che, dopo il terrificante uno-due di Capaci e via D'Amelio, che con autentici atti di guerra aveva spezzato la speranza civile incarnata in due grandi siciliani come i giudici Falcone e Borsellino (definiti "cretini" da Corrado Carnevale, presidente della prima sezione di Cassazione) lasciò la tranquilla vita di farmacista e si impegnò nella vita civile, nelle scuole, nelle associazioni e da ultimo nell'agone elettorale, per portare avanti l'insegnamento del fratello e tenere viva la speranza (ottenendo, al primo colpo, un risultato molto significativo: 1.078.259 voti pari al 41,641, cinque punti e mezzo più dei voti delle liste collegate, mentre l'eletto, forte di una vita a battere i marciapiedi della politica e di una politica clientelare scandalosa, otteneva solo 296.000 mila voti in più pari al 53,086% otto punti meno del numero dei voti delle liste collegate. È un segnale chiaro che l'Isola delle persone per bene è ancora viva e pronta a battersi).

Le madri, la sorella e Rita Atria
In mezzo c'è la storia della madre di Peppino Impastato, impegnata a difendere la memoria del figlio nato in famiglia mafiosa ma da sempre combattente contro la mafia che lo eliminò; della madre di Roberto Antiochia, il poliziotto che non sapeva stare lontano dal "suo" commissario Nino Cassarà per cercare di assicurargli quella protezione che lo Stato non gli assicurava e che cadde sul campo insieme a lui in un'altra azione di guerriglia, che dopo la perdita del figlio si impegnò soprattutto nei confronti dello Stato perché tenesse alta l'attenzione e non mostrasse, a ondate, quelle preoccupanti cadute di attenzione e di tensione che sono poi la ragione vera per cui i Nino Cassarà e i Roberto Antiochia restano sull'asfalto; della sorella di Salvatore e Rodolfo Buscemi, una vita durissima e difficilissima; di Rita Atria, giovanissima di Partanna, di famiglia mafiosa, che a diciassette anni, si mise contro la mafia in una delle zone più omertose della Sicilia e che dopo l'uccisione del padre, del fratello, del giudice Falcone, del giudice Borsellino, che era diventato il suo punto di riferimento, rimasta sola, si gettò dal settimo piano in un ultimo gesto di ribellione per amore.

Giovanni Falcone
Una volta ebbi la fortuna di stare due o tre ore con il giudice Falcone e l'allora ministro degli Interni Rognoni per discutere, a porte chiuse, del tema: mafie ed economia. Era il periodo in cui Falcone viveva, da sepolto vivo, nel suo bunker. Io avevo una ammirazione smisurata per lui, sia sul piano professione che umano. Mi rendevo ben conto di quale forza d'animo e di quale equilibrio doveva avere per reggere, così a lungo, una vita così sacrificata. Ad un certo punto gli chiesi: "ma noi, che operiamo nell'economia, che cosa possiamo fare per essere vicini a voi che siete in prima linea, per darvi una mano". La risposta, semplice e tagliente, fu di quelle che non si dimenticano: "Fate buona economia". È tutto. E qui il discorso dell'economia si salda con le storie raccontate da Nando dalla Chiesa. Se la principessa Notarbartolo avesse fatto buona economia nei suoi feudi e nella cava di Sciara, Salvatore Carnevale non sarebbe stato ammazzato. Se in Sicilia si fosse fatta buona economia le meravigliose giovani energie dei Peppino Impastato, dei Roberto Antiochia, delle Rita Atria e di tanti tanti altri non sarebbero ancora tra noi per collaborare a costruire una società più civile?

Cattiva economia
Ma non si è fatta e non si fa buona economia in Sicilia, come del resto in tutto il Mezzogiorno. Non la fanno gli imprenditori che continuano ad alimentare la credenza che fare impresa voglia dire, essenzialmente, andare a caccia di sovvenzioni di Stato. Non la fa la Regione che esercita il suo enorme potere e gestisce le sue grandi risorse finanziarie, fondamentalmente con meccanismi clientelari e assistenziali. Non la fa lo Stato che continua ad alimentare la favola che il Mezzogiorno ha bisogno di capitali e che crede di liberarsi la coscienza stanziando sempre nuovi soldi a favore della enorme classe di intermediazione politico-finanziaria che è il vero humus per la continua rinascita delle nuove mafie.

Modelli economici
Ma cosa vuol dire: fare buona economia? Per gli imprenditori fare buona economia vuol dire operare secondo il modello dell'economia imprenditoriale. La caratteristica di fondo di questo modello è che gli operatori ricevono dal sistema risorse (forza lavoro, capitale, conoscenza etc.) e restituiscono al sistema più di quello che hanno ricevuto: il di più è il valore aggiunto creato dalla funzione imprenditoriale cioè dall'innovazione creativa. A questo modello si contrappone il modello dell'appropriazione che rappresenta l'humus della mentalità mafiosa e dell'operatività delle mafie. Secondo il modello dell'appropriazione gli operatori cercano di farsi dare risorse dal sistema (con l'astuzia, l'imbroglio, la connivenza politica, la violenza mafiosa) che servono solo al loro processo di accumulazione personale o, al massimo, ai loro consumi. La maggior parte degli operatori del mezzogiorno si colloca culturalmente e operativamente nel modello dell'appropriazione. Tra il dominio di questo modello culturale e la diffusione della violenza mafiosa esiste un rapporto stretto, quasi di causa ed effetto.

Buona politica
Per le istituzioni locali fare buona economia vorrebbe dire seguire i principi che illustrò il Ministro Ezio Vanoni (l'unico vero ministro delle finanze degli ultimi sessanta anni che nel 1956 era ministro del bilancio e ad interim del tesoro) nel suo ultimo discorso al senato poche ore prima di morire (seduta del 16 febbraio 1956) per un attacco al cuore troppo stressato dal suo generoso impegno. Ad un intervento del senatore Condorelli che lo accusava di essere uomo di sinistra, Vanoni rispose: "Devo dire, onorevole Condorelli, molto semplicemente che non c'è politica finanziaria più dura, più severa, più accurata di quella richiesta dall'esigenza del miglioramento sociale ed economico di un Paese depresso come il nostro. Guai a noi se indulgessimo, in qualsiasi momento, a spese inutili, guai a noi se indulgessimo in qualsiasi momento, per considerazioni di tranquillità e di popolarità, nell'amministrazione delle entrate del nostro Paese".
Per lo Stato fare buona economia vorrebbe dire cambiare tutto, ma proprio tutto dell'armamentario concettuale che domina negli ambienti di governo (di destra e di sinistra) dagli anni '50. Vorrebbe dire smetterla con la favola che il Mezzogiorno ha bisogno di capitale finanziario mentre ha bisogno di capitale intellettuale e morale, di imprenditori, manager, professionisti seri, di amministratori pubblici decenti e soprattutto di giustizia, il più importante fattore di produzione. Vorrebbe dire smetterla con l'imbroglio che il Mezzogiorno resta arretrato per mancanza di infrastrutture mentre, ad esempio, non ha bisogno di ospedali ma di medici e di direttori sanitari selezionati in base al merito e non in base all'appartenenza e cioè, in ultima analisi dalla mafia. Vorrebbe dire smetterla con le Regioni che gestiscono grande parte dell'economia con metodi centralisti-assistenziali (per le Regioni che conosco - Sicilia, Calabria, Campania - l'unica politica seria sarebbe di fare come con il campionato di calcio, sospenderle a tempo indeterminato) e fare una politica che punti alla valorizzazione delle energie produttive della città. Vorrebbe dire smetterla di alimentare la prospettiva profondamente errata che il Mezzogiorno debba scimmiottare il Nord in una rincorsa imitativa insensata e irrealizzabile, invece di disegnare modelli e ritmi di sviluppo propri, adatti alle caratteristiche proprie dei tanti Sud esistenti, puntando sulla qualità della vita e sul post-industriale. Vorrebbe dire affrontare seriamente il difficile problema di come rendere più difficile l'infiltrazione negli organi pubblici della criminalità organizzata e delle professioni fianchezzatrici.
Ed intanto si potrebbe incominciare con il non lasciare soli gli eroi civili che pure il Sud ha espresso, in grande numero, negli ultimi decenni, da tanti sindaci eroici alle donne ribelli delle quali narra Nando dalla Chiesa, che racconta anche la delusione e l'amarezza di Saveria Antiochia nel constatare che la sinistra continuava la politica di sempre. È una delusione ed una amarezza da condividere e che pone una domanda molto seria: se sono tutti uguali; se seguono tutti i soliti luoghi comuni; se nessuno è capace di dare vita a qualche forma di discontinuità; se recitano tutti gli stessi riti; se sono tutti vittime della stessa retorica e nello stesso tempo delle stesse distrazioni verso le forze vive ed autentiche della società, quale è la ragione di fondo politica e culturale di tutto ciò? E quale futuro possiamo immaginare? La mafia è un fenomeno storico, diceva Falcone, e come tutti i fenomeni storici ha un inizio e una fine. Giustissimo. Ma non è indifferente che la fine sia oggi o tra venti anni o tra duecento anni.

La sua fine potrebbe anche essere più vicina di quello che si pensa. Ma perché ciò avvenga abbiamo bisogno anche di buona economia. Se a Napoli ed a Palermo salissero alla guida delle capitali del Sud leader che sanno cosa è la buona economia e fossero decisi a praticarla con l'alleanza delle forze produttive sane, rompendo il blocco sociale che si formò dal 1947 al 1955 e che, rinnovandosi continuamente negli attori, è stato stabile nelle linee di fondo, se le Regioni Sicilia e Campania smantellassero i loro enormi e costosissimi apparati stalinista-assistenziali e facessero semplicemente buona politica, a sua volta premessa della buona economia, allora forse avremmo bisogno di un minor numero di donne ribelli per tenere viva la speranza e la tensione per una società meno barbara.

 

La preghiera del ribelle
Signore che fra gli uomini drizzasti la tua croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te, fonte di libere vite, dà la forza della ribellione…
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.

Teresio Olivelli (1944)

 

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