Pubblicato su politicadomani Num 65 - Gennaio 2007

Braccio di ferro e prove di pacificazione
Sull'orlo di un conflitto generalizzato
Fatti e ragioni di una guerra che si trascina da quasi un ventennio nella regione del Corno d'Africa

di Francesco Stefanini

La Somalia è tornata nelle mani di un governo che non ha mai governato: quell'autorità costituita nel 2004 - che sembra aver riunito in sé tutti i signori della guerra somali - come "Governo di Transizione" su mandato della comunità internazionale, allo scopo di formare un governo in grado di prendere in mano le redini della complessa situazione politica del paese. Inutilmente. Nel vuoto istituzionale si sono inserite le Corti Islamiche e man mano che esse guadagnavano terreno il "governo" si è mosso dal Kenya, dove era stato costituito, a Baidoa, una cittadina vicina al confine etiope.
Sarebbero stati proprio gli americani, che per ragioni di interesse strategico e probabilmente anche economico avrebbero armato i signori della guerra (coloro cioè che si contendevano le spoglie dell'ex repubblica somala). La Somalia è infatti al centro della regione del Corno d'Africa e controlla il passaggio fra l'Oceano Indiano e il Mar Rosso; inoltre importanti rilevamenti geologici fatti poco prima della caduta di Siad Barre - di cui però la stampa internazionale non parla - mostrano che ci sono nella zona vasti giacimenti di petrolio; c'è quindi la possibilità che questa regione diventi un inferno di conflitti e interessi incrociati simile al medioriente.
I signori della guerra, dopo aver scatenato una caccia all'islamico, avrebbero, al contrario, ottenuto l'effetto di saldare l'unità popolare a favore delle Corti e contro le loro operazioni. "La loro sconfitta portò al governo dell'Unione delle Corti Islamiche (UIC), il controllo di Mogadiscio e grande favore popolare dopo 17 anni di vuoto amministrativo" così commenta Altrenotizie, testata giornalistica indipendente online (www.altrenotizie.org). Oggi "la maggioranza delle forze degli islamisti è stata distrutta, le Corti islamiche (che in realtà rappresentano la grande maggioranza dei somali e non una deriva estremista) non esistono più. Questa vittoria apre la strada a un nuovo avvenire", così si è espresso Ali Mohamed Gedi, primo ministro del governo di transizione, in una conferenza stampa nel centro di Mogadiscio, dove era entrato (29 dicembre) qualche ora prima con un convoglio di 22 mezzi, scortato da truppe lealiste, soldati etiopi, e dagli influenti anziani dei principali clan della capitale.
Il governo federale di transizione, appoggiato dalle forze etiopiche, è tornato a controllare "il sud e il centro della Somalia", dopo la presa (1 gennaio), del porto strategico di Chisimaio (Kismaayo, secondo altre dizioni), ultima roccaforte dei miliziani delle Corti islamiche che lo avevano occupato tre mesi fa. Il governo di transizione ha anche chiesto l'invio rapido di una forza di pace africana - esistente sulla carta ma mai operativa - rinnovando la proposta di un'amnistia ai miliziani se saranno pronti alla resa e ribadendo la volontà di "ristabilire la legge e l'ordine" in tutto il paese, a cominciare da Mogadiscio.
Intanto, mentre navi da guerra americane starebbero pattugliando le acque al largo di Chisimaio, in un discorso di fronte al Parlamento etiope di Addis Abeba, il premier Meles Zenawi ha rivolto un appello al governo somalo "affinché impedisca il ritorno al potere dei signori della guerra". Un appello che potrebbe nascondere l'interesse dell'Etiopia a prendere il controllo, militare prima e politico poi, sulla confinante Somalia per evitare, fra l'altro, il flusso di popolazione musulmana che dalla Somalia si sta spostando verso l'Etiopia la cui popolazione, per il 50% cristiana, verrebbe così ampiamente superata da quella musulmana.
Ma la situazione non promette nulla di buono e l'Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr) si prepara ad accogliere migliaia di sfollati al confine con il Kenya.

Il "Governo di Transizione" è stato il quattordicesimo tentativo in 14 anni di stabilire un'autorità centrale nel Corno d'Africa. L'autorità fu costituita nel 2004 in Kenya dalla Igad, l'organizzazione politico-commerciale formata dai paesi del Corno d'Africa comprendente, oltre alla Somalia, anche l'Eritrea, l'Etiopia, il Kenya, il Sudan, l'Uganda e Gibuti. Un governo che doveva esprimere un parlamento federale e che ha nominato Abdullah Yusuf presidente della repubblica e Gedi premier. Un governo riconosciuto internazionalmente, ma con scarso controllo del territorio, che si scontra con la voce delle Corti Islamiche, malviste della comunità internazionale ma con un forte seguito tra la popolazione locale e con capacità militari, accresciute ultimamente anche grazie al sostegno dell'Eritrea e di alcuni paesi occidentali (Italia compresa), che ne hanno consentito la rapida diffusione su gran parte del sud e del centro della Somalia.
"Il Consiglio delle Corti Islamiche è controllato da individui di una cellula di al Qaeda dell'Est-Africa", è così che la robusta signora afroamericana Jendayi Frazer - che da qualche tempo ricopre il ruolo di incaricato speciale per l'Africa dell'amministrazione Bush - ha dichiarato per giustificare l'ennesimo impegno Usa in una guerra dalle conseguenze del tutto imprevedibili, aggiungendo "le figure di maggior spicco delle Corti sono estremisti. Sono terroristi. Stanno uccidendo le suore, hanno ucciso dei bambini e stanno chiamando alla jihad". Le forze regolari del Governo di Transizione somalo, supportate dalle forze etiopiche e statunitensi hanno avuto la meglio contro le "militarmente deboli" milizie delle Corti Islamiche sostenute, quest'ultime, da circa duemila eritrei e dall'Oromo Liberation Front, (etnia maggioritaria etiope cacciata e sistematicamente perseguitata dal governo di Meles Zenawi). Era facilmente prevedibile considerate le super-potenze in campo. "L'esercito etiope non è quello americano, ma le Corti non hanno niente di paragonabile ad un esercito: niente carri armati e niente aviazione; il gap tecnologico è insormontabile e quindi l'esercito etiope può fare quel che vuole", si legge su "Altrenotizie".
Il leader etiope Meles Zenawi ha dichiarato che l'invasione della Somalia è giustificata dalla minaccia che gli islamici somali rappresenterebbero per l'Etiopia e ha parlato di diritto di difesa. Ma al di là del confine, nella conquistata terra somala, pare "non esistesse alcuna forza in grado di minacciare l'integrità della nazione etiope, ancora meno in grado di attaccarla militarmente (...) Le truppe etiopi che attaccano la Somalia lo fanno per procura. Non sono altro che marionette condotte sul campo dai consiglieri militari americani che in gran numero si trovano in Etiopia e Kenya" così scrive il giornalista Raffaele Matteotti di "Altrenotizie". Sembra poco amato dalla gente Zenawi, che però non dispiace a Washington che si serve di lui per scagliare una guerra "per interposto paese" al terrorismo; così come "per interposto paese" pare agire l'Etiopia contro l'Eritrea, sua rivale nella guerra tra il 1998 e il 2000. In questa situazione e con tali alleati alle spalle, ora Zenawi può far dimenticare il suo illegittimo e sanguinoso potere.
Le Corti sostengono che il governo formato nel 2004 in Kenya, non abbia avuto alcuna legittimazione popolare, e giudicano inaccettabile il fatto che abbia permesso l'accesso nel paese a truppe straniere (gli Etiopi). Una presenza che dal canto suo il governo etiope ha sempre negato. Fino allo scorso 19 ottobre, quando il capo del governo Meles Zenawi ammise davanti al Parlamento di aver inviato istruttori militari per aiutare le milizie governative negando però il dispiegamento di truppe.
L'Etiopia, che è una dittatura che calpesta sistematicamente le libertà e i diritti umani, è in guerra con un'altra dittatura, ancor più spietata, quella eritrea. Nel conflitto fra Etiopia ed Eritrea gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere l'Etiopia, ufficialmente per contrastare la minaccia del fondamentalismo islamico. Il leader eritreo Afewerki, dopo aver corteggiato per un paio di anni gli Usa per accreditarsi come loro alleato nella lotta al terrorismo, ha cambiato strategia e ha risposto a questa mossa avvicinandosi all'Iran. Da inizio dicembre Afewerki non fa altro che dipingere gli Stati Uniti come "il grande nemico della nazione". È così verosimile che gli Stati Uniti contraccambino il favore aumentando le forniture militari, rafforzando il regime etiope ed agevolando il crollo di quello eritreo.

Sembra quindi che l'Etiopia, abbia giocato bene: agitare rumorosamente lo spauracchio del terrorismo islamico, dei legami (mai chiaramente dimostrati) delle Corti con al-Qaeda e con le forze del jihad internazionale pronte a combattere contro la cristiana Etiopia, cui spetta invece il compito di arrestare il dilagare dell'islam radicale nel Corno d'Africa. Ne è prova la risoluzione 1725 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu il cui testo, presentato dagli Stati Uniti, è stato approvato il 6 dicembre. La risoluzione dà il via libera formale a una forza internazionale di ottomila uomini con il compito di "monitorare e mantenere la sicurezza a Baidoa", schierandosi così nettamente a favore di una sola delle parti in causa, quella delle istituzioni transitorie.
Diventa difficile pensare che l'Etiopia possa davvero immaginare di conquistare Mogadiscio per dare poi il potere agli amici delle istituzioni transitorie, a partire dal presidente Yusuf, il quale sa bene di non essere amato nella capitale, tanto che in due anni di incarico non ha mai osato metterci piede. Ed è inoltre difficile prevedere la reazione della popolazione che invece sa come le Corti Islamiche in questi sei mesi siano riuscite a riportare una relativa pace nelle città e nelle regioni che hanno conquistato.

 

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