Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Natale a Napoli
Un presepe laico e "cortese"
"Voce tipica della cultura artistica della Napoli del '700, il presepe che diremo cortese per differenziarlo dal vecchio presepe di chiesa, si rivela esperienza mondana, sostanzialmente disincantata e laica" [Raffaello Causa]*

di Maria Mezzina

Cortese. Si dice "cortese" il presepe napoletano più ricco e famoso; quello che a partire dal '500 si è poi sviluppato - in una varietà di personaggi e in una complessità di scenografie ineguagliate e forse ineguagliabili - nella seconda metà del XVII secolo, fino a raggiungere il vertice della magnificenza e dell'ostentazione durante il secolo successivo.
Cortese da "corte". Roba, quindi, da re. Ed è infatti soprattutto ai reali e alla corte dei Borbone - Carlo III amava forgiare lui stesso le statuette e i mattoncini del grandioso presepe che usava allestire nella reggia - che si deve la diffusione di quella "moda" sofisticata e costosa dell'allestire il presepe più bello, che contagiò Napoli nel XVII e XVIII secolo. I presepi erano così belli che oltre ai nobili e al popolo della città perfino re, principi e principesse italiani e stranieri che venivano in visita a Napoli avevano l'abitudine di andarli a vedere per lasciarsene incantare.
L'originale schema della nascita di Gesù, la stalla, l'annunciazione e la taverna, primo degli infiniti elementi mondani di cui si sarebbe poi arricchito il presepe napoletano, subiscono nel tempo trasformazioni radicali: il carattere sacro della rappresentazione viene ad affievolirsi sempre di più e la scena stessa della Nascita viene confinata in un angolino quasi nascosto, mentre attorno esplode la vita della città con l'esuberanza della sua popolazione immersa nel gioco gaudente e giocoso dell'esistenza. Questa esplosione di vita si manifesta nella varietà dei personaggi, ritratti con supremo realismo, e nella ricchezza della scenografia, curata fino nei minimi particolari.
Il presepe diventa la rappresentazione di una città opulenta: con taverne ricolme di cibi, botteghe piene di oggetti, tavole imbandite fino all'inverosimile, popolata di gente sazia e felice ignara o noncurante, per lo più, del Mistero che si sta compiendo proprio vicino a loro, in un angolo anonimo e confuso nel tripudio dell'abbondanza generale.
È come se nel presepe si riversassero le aspirazioni più terrene di un popolo desideroso di avere la pancia piena e il cervello libero da preoccupazioni di sorta; e anche le aspirazioni, meno terrene ma altrettanto lontane dalla sacralità dell'evento, di una borghesia in rapida ascesa che vuole affermarsi sulla scena cittadina con l'ostentazione delle ricchezze e la disposizione ad impegnarle in gioielli e in vestiti, in oggetti dal gusto raffinatissimo e anche in palazzi ed opere d'arte, inclusi i presepi.
È quindi il trionfo della borghesia nascente figlia dell'illuminismo, che guarda con più interesse al mondo della nobiltà di cui si accinge a prendere il posto, piuttosto che al mondo del popolo più semplice, sprovveduto e certamente più povero da cui, invece, proviene.
Nei presepi napoletani del '600 e del '700 trionfano il paesaggio e la coralità delle scene minuziosamente rappresentate con ricchezza di particolari: personaggi, costumi, oggetti, ambienti. Il presepe diventa pura scenografia, teatro che irrompe nella vita e la conquista. La vita che appare nel presepe napoletano è vita vissuta di riflesso, vita recitata nei suoi aspetti più appariscenti e appaganti, come vogliono i secoli del barocco e del rococò, di cui il presepe è una delle espressioni più caratteristiche.
L'allestimento del presepe diventa, poi, un esercizio di potere, un modo di manifestare il proprio "status", tanto più elevato rispetto al resto della popolazione quanto più il presepe è prezioso, ammirato, visitato, anche da principi e reali. È il caso dei presepi dei fratelli Terres, librai editori; di Antonio Cinque, mercante di pelli e di lana; di Nicola Riggiero, sacerdote appartenente a una famiglia di ricchi negozianti di seta; di Raffaele Servilli, notaio.
In questo trionfo di opulenza tutta materiale non c'è alcuno spazio non solo per la religiosità, ma neanche per la pietà umana. I poveri, mendicanti e deformi, che trovano posto in questa sorta di rappresentazione laica e profana sono messi lì con l'intento di provocare in chi guarda riso, scherno e disprezzo piuttosto che pietà e compassione.
Un modo, quindi, di celebrare il Natale che la Chiesa non poteva far suo. E infatti molte di queste fin troppo umane rappresentazioni, per quanto fossero allora e siano tuttora delle vere e proprie opere d'arte, non furono mai acquisite dai religiosi per l'allestimento dei presepi destinati agli edifici sacri, chiese e conventi.


* da Il presepe cortese in "Civiltà del '700 a Napoli. 1734-1799", Catalogo della mostra, Napoli dicembre 1979-ottobre 1980 - a cura di Raffaello Causa.

 

Homepage

 

   
Num 64 Dicembre 2006 | politicadomani.it