Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Diritti umani in Italia
Essere madre in carcere
Le madri detenute sono una grossa fetta della popolazione carceraria femminile e il loro primo problema è decidere se tenere o meno con sé i propri bambini

di Damiano Sansosti

La criminalità femminile è divenuta materia di indagine e di studio solo da poco. Da quando cioè, negli ultimi trent'anni, le donne sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro paese e che si è risolto nella approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell'aborto, dal divorzio all'abrogazione del reato di adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità - in termini di diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di retribuzione - che interessa ora l'intera sfera sociale.
La maggiore visibilità che hanno ora le donne ha però prodotto in ambito criminale ben pochi mutamenti: gli uomini sono ancora i protagonisti quasi esclusivi della realtà carceraria e criminale.
Tutto ciò confermerebbe l'ipotesi che l'influenza e la partecipazione delle donne ai reati sia molto minore, non c'è cioè in ambito criminale una cosiddetta "emancipazione femminile". È forse per questo che il diritto penitenziario ha trascurato di adeguarsi ai cambiamenti che sono avvenuti nella società in termini di diritti delle donne. Questo anche a proposito del problema che più di ogni altro pesa sulle donne detenute: il problema della maternità in carcere.
Le madri detenute sono una parte considerevole della popolazione carceraria femminile ed il primo problema che esse debbono risolvere è decidere se tenere o meno in carcere i propri bambini. In genere sono poche le donne che decidono di tenere i figli in carcere; e tale decisione viene presa solo quando le alternative sono difficilmente praticabili, se non inesistenti. La normativa penitenziaria stabilisce che appositi reparti-nido siano costituiti soltanto dove ce ne sia una necessità continua nel tempo. E nei pochi istituti attrezzati non sempre le sezioni-nido sono bene organizzate: gli standard di igiene sono discutibili e le strutture ludico-ricreative sono carenti.
La metà delle donne che vivono in carcere con i figli sono straniere, in prevalenza extracomunitarie; per questa ragione in molti casi le misure alternative di detenzione, come gli arresti domiciliari, risultano inapplicabili. Donne lontanissime dal loro contesto socioculturale e senza una residenza vivono così in cella insieme ai figli, in ambienti limitati, affollati e disadorni. Bambini costretti a vivere l'esperienza della carcerazione fino ai tre anni, con perquisizioni, ore d'aria, regole, sbarre: le stesse libertà ristrette dei detenuti adulti.
Doveroso sarebbe trovare una soluzione non soltanto per i piccoli ma anche per le madri. Si tratta di soluzioni strutturali che vanno ben al di là degli asili esterni nei quali i volontari accompagnano quotidianamente i piccoli "in regime di semilibertà". C'è bisogno di strutture capaci di ospitare anche le mamme detenute che, indispensabili come sono per la cura e il benessere dei loro figli, non possono godere dei benefici di legge stabiliti dai magistrati di sorveglianza perché mancano le strutture adeguate.
"In un paese civile e per un'Amministrazione che voglia essere degna dello Stato che serve e rappresenta, i problemi umani non ammettono disattenzioni, distrazioni ed insensibilità, né ammettono rifiuti o ritardi, giacché il prezzo di questi è l'attesa spasmodica e la moltiplicazione delle sofferenze di chi chiede, è l'intollerabile inquietudine e rimorso di coscienza di chi, potendo fare tutto o almeno qualcosa, non fa nulla o fa meno di quello che potrebbe". L'osservazione, che suona come un severo giudizio, è di Nicolò Amato, ex direttore generale delle carceri italiane.

 

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