Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Riflessioni di un agente penitenziario
Detenzione e riabilitazione
Il ruolo degli agenti e degli educatori in carcere tra sicurezza e trattamento del detenuto: l'obiettivo comune è la riabilitazione della popolazione carceraria

di Maria Gabriella Mezzetti

Nella prassi penitenziaria due sono le figure di riferimento, in costante relazione con la persona ristretta: gli operatori di polizia penitenziaria, preposti a garantire l'ordine e la sicurezza all'interno dell'istituto, e gli educatori, incaricati del recupero del detenuto attraverso un programma individuale di trattamento psico-pedagogico finalizzato alla ristrutturazione e riabilitazione della personalità e al suo futuro reinserimento sociale.
Sicurezza e trattamento vengono concepiti come due diverse ma complementari modalità di gestione della comunità carceraria e delle risorse umane in essa presenti.
Il mandato istituzionale dell'Ordinamento Penitenziario del 1990 autorizza gli operatori di polizia penitenziaria ad occuparsi anche dell'opera di trattamento e di rieducazione della popolazione detenuta, relegandoli però nella sostanza, ad una mera funzione di controllo, nella quale si possono verificare casi di vera e propria conflittualità tra i poli della diade sicurezza/rieducazione. Questo binomio evidenzia una realtà particolare del sistema penitenziario. Il primo rimanda al concetto di vigilanza, di esercizio della disciplina, il secondo racchiude un insieme di attività trattamentali - dove per "trattamento" si intende un processo di cura che investe l'ambito comportamentale e psicologico - liberamente scelte dai detenuti.
Questa profonda diversità tra le due modalità di intervento professionale ha sempre generato in me, che mi occupo della "vigilanza", grande insofferenza e disagio. L'agente di polizia penitenziaria trascorre infatti moltissimo tempo (sei/otto ore) nel braccio penitenziario, ed è testimone diretto delle varie dinamiche emotivo-relazionali del detenuto. Forti emozioni, crisi, gioie e frustrazioni, sono spesso condivise dal detenuto proprio con l'agente di reparto, il quale per primo è reso partecipe degli eventi che coinvolgono la persona reclusa. Nel tempo, riferito ai mesi e agli anni di detenzione trascorsi insieme, il rapporto tra l'agente di polizia penitenziaria e il detenuto non è più lo stesso.
La persona ristretta, se l'opera di trattamento è andata a buon fine, è diversa nei modi e nella sostanza dalla persona che ha commesso il crimine e la funzione/relazione professionale dell'agente si è andata modificando e strutturando sulla nuova personalità del detenuto. Può diventare allora quasi spontaneo invadere il campo dell'area educativa, alla quale è preposto altro personale, preparato e formato per questa specifica mansione.
D'altra parte, per poter perseguire obiettivi e interventi integrati, sono necessari una conoscenza approfondita delle norme che regolano l'istituto, una definizione specifica degli spazi di operatività, dei limiti e dei livelli di autonomia dei rispettivi ambiti di azione, ed una specifica capacità di interpretare i differenti linguaggi.
L'istituto penitenziario dovrebbe trasformarsi in "comunità educativa". Per uscire dall'isolamento occorre promuovere il passaggio dalla cultura penale alla cultura umana. La concezione del carcere come luogo di reinserimento, come istituzione sociale, dovrebbe caratterizzarsi nella promozione di un modello comunitario, in grado di accogliere e contenere, di educare e sostenere, anziché escludere ed emarginare.

 

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