Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Alcuni dati sulla detenzione femminile

 

La detenzione femminile è una realtà del tutto marginale all'interno del mondo carcerario. Le donne, sia in ambito nazionale che internazionale, costituiscono infatti solo il 5% circa di tutte le persone detenute. Una realtà quasi invisibile in un mondo dimenticato.
In Italia le donne detenute sono un migliaio, distribuite tra 7 istituti penitenziari esclusivamente femminili, ciascuno con una capienza che va da un minimo di 40 recluse ad un massimo di 300, e 90 piccole sezioni, annesse ad istituti maschili, ognuna ospitante dalle 15 alle 40 unità.
Le donne detenute non manifestano alcuna particolare tipicità di reato, non esiste cioè un "reato tipico femminile". Sono soprattutto giovani, la metà di loro ha tra i 25 e i 35 anni, un quarto ne ha meno di 25, e una su quattro è straniera.
La maggioranza delle donne recluse appartiene a un'umile condizione sociale, ha un basso livello di istruzione, spesso nessuna occupazione lavorativa e proviene da famiglie con gravi problemi interni. Alcuni studi hanno confermato questo legame: la maggior parte delle donne in carcere ha alle spalle una storia di abusi sessuali, di violenza in famiglia o di problemi connessi all'uso di sostanze stupefacenti. Altre ricerche hanno identificato nell'ambiente di vita la causa prima dei comportamenti illegali: povertà, sfruttamento, lavoro nero e sottopagato, mancanza di cultura e di risorse.
"Giudici che guardano solo all'utilità dei metodi, rispolverano teorie di colpa d'autore per cui si è colpevoli per quel che si è. Il furore investigativo forza e deforma la prova. Il sospetto diventa indizio e l'indizio diventa prova. Non serve il colpevole. Basta un colpevole", accusa Nicolò Amato, ex direttore generale delle carceri [N. Amato, "Processo alla giustizia", Marsilio Editore, 1994, pag. 49].
Le donne, e gli uomini, spesso sono indotti a compiere i reati ritenendo questa l'unica possibile alternativa. Il lavoro insicuro e saltuario e la sottoccupazione sono caratteristiche che connotano la maggior parte delle persone detenute. La maggioranza dei reati commessi è costituita infatti da quelli contro il patrimonio.
È questa provenienza sociale dagli strati più bassi ed emarginati, la più evidente condizione di uguaglianza tra mondo criminale maschile e femminile. Una condizione che, se non può in alcun modo giustificare il reato, pone però seri dubbi sulla capacità dello Stato di operare in modo da prevenire il crimine piuttosto che punirlo: almeno un certo tipo di crimine frutto di ignoranza e di povertà
emarginare.

 

La Legge 395/1990

La Legge 395/1990 all'art. 5, comma 2, elenca tra i compiti della Polizia Penitenziaria quello di partecipare alle attività di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati.
La Polizia Penitenziaria è chiamata a realizzare almeno due importanti finalità per garantire la civile convivenza:
1. dare effettiva esecuzione ai provvedimenti che comportano una legittima restrizione della libertà personale;
2. dare effettiva attuazione alla funzione rieducativa della pena detentiva secondo i dettami dell'art. 27, comma 3 della Costituzione: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
Si tratta di due aspetti apparentemente in conflitto, ma la loro interconnessione e la loro interdipendenza sono alla base del processo di riforma iniziato con la Legge 395/1990.
Questo forse è l'aspetto che maggiormente distingue le funzioni della Polizia Penitenziaria tra le Forze di Polizia dello Stato.

 

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