Pubblicato su politicadomani Num 64 - Dicembre 2006

Sudan
Dove comincia la crisi del Darfur
Interessi internazionali su una zona fra le più ricche di petrolio del continente africano e ataviche rivalità fra etnie africane e popolazioni nomadi arabe sono alla base di un conflitto che dopo aver riempito le pagine dei giornali è stato subito dimenticato

di Francesco Stefanini

Il Sudan,
oltre a essere il più grande paese del continente africano, con un'area di oltre 2,5 milioni di kilometri quadrati, fa anche da frontiera tra il mondo arabo e l'Africa nera.
Dal giorno dell'indipendenza, nel 1957, sono solamente dieci gli anni in cui la popolazione sudanese ha vissuto in pace: per il resto del tempo il paese è stato sempre attraversato da conflitti più o meno gravi ed estesi. Il Sudan sembra affetto da una situazione cronica di conflitto: sulla distanza a volte incolmabile tra il governo centrale arabo e islamico di Khartoum e le periferie sudanesi popolate da numerose etnie nere africane, hanno potuto così attecchire motivi di conflitto innescati da variabili economiche, politiche e anche religiose.
Secondo le stime dell'ONU più di un milione di sfollati interni, quasi 200mila profughi, e migliaia di morti, dai 5mila denunciati dal governo sudanese ai 30/50mila indicati dall'Onu stessa: sarebbero questi i numeri della crisi del Darfur, ultima in ordine temporale, una crisi, che ha assunto proporzioni talmente ampie da imporsi nelle cronache di mezzo mondo. In meno di due anni, tra il 2003 e il 2005, gli scontri tra ribelli e governativi e le violenze dei Janjaweed (bande armate di predoni arabi) hanno causato una crisi umanitaria di proporzioni sconcertanti su cui si rincorrono i numeri, più o meno gonfiati a seconda della fonte e degli interessi mediatici: per ora le stime dell'ONU sembrano le meno condizionate.

La lotta
per le aree verdi, che col passare degli anni e l'avanzare della desertificazione sono andate sempre più restringendosi; le differenze, che restano forti, tra arabi e non arabi (come molti studiosi e antropologi di solito classificano le popolazioni sudanesi), differenze che passano anche per le attività pastorizia e di agricoltura a cui questi due gruppi si dedicano: sembrano queste le ragioni di un conflitto permanente che valgono per il resto del Sudan e si sommano per il caso del Darfur. Gli arabi, nomadi e prevalentemente dediti alla pastorizia, si spostano per la regione in cerca di pascoli secondo la stagione delle piogge, o comunque il susseguirsi delle stagioni; i neri africani vivono di agricoltura, sono stanziali e le loro rivendicazioni di proprietà su quelle terre affondano le radici nella storia e nei sultanati indipendenti che per secoli si sono avvicendati al potere, ultimo proprio quello dei Fur (Dar-fur vuol dire "proprietà tribale" o "territorio" dei Fur), l'etnia nera principale dell'area insieme agli Zaghawa, ai Masalit e a un'altra decina di gruppi minori. Tuttavia è stato sempre il codice tribale a mantenere gli equilibri tra i due gruppi e a risolvere le dispute per il controllo e l'utilizzo della terra: per quanto le ragioni dei conflitti possano sembrare ataviche e istintive, grazie al rispetto di questo codice gli scontri per la terra non risultano essere la costante della storia del Darfur. Col passare del tempo però le due anime del Sudan, quella araba e quella non araba, sono andate sempre più allontanandosi, e all'abbandono politico economico in cui Khartoum ha condannato le periferie del Paese si è sommata una nuova presa di coscienza delle popolazioni nere. La guerra combattuta dall'Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla) contro Khartoum per l'indipendenza, l'autonomia o anche la secessione del Sud Sudan ha approfondito - aggiungendo motivazioni politiche e soprattutto economiche - un solco già netto tra i due Sudan; la presenza del petrolio e di importanti interessi internazionali ha fatto il resto.
La crisi del Darfur e l'esasperazione delle tensioni e differenze di cui la sua storia è intrisa mostrano un evidente legame con le tormentate vicende del Sud del Paese. Khartoum è stata praticamente costretta dalla comunità internazionale a trovare un accordo con i ribelli dello Spla e del Sud Sudan a causa del petrolio che si trova nelle zone contese e in cui da anni operano aziende americane, indonesiane, cinesi e di varie altre nazionalità. Gli accordi siglati prevedono che a sei anni dalla firma della pace definitiva, il Sud Sudan tenga un referendum per decidere se diventare indipendente o meno. Il governo sudanese rischia così di perdere il controllo diretto di una vasta fetta di territorio, ma soprattutto crea un precedente preoccupante rispetto alle altre popolazioni nere dell'Ovest e dell'Est del Paese.

Gli interessi petroliferi
hanno consentito ai ribelli del Sud di fare il salto di qualità ottenendo fondi, armi e appoggi logistici e politici, e niente vieta che chiunque possa strumentalizzare il malcontento dei neri africani del resto del Sudan per lottare contro Khartoum. Infatti, mentre il governo centrale faceva la pace col Sud, ad ovest si apriva un nuovo focolaio. In fondo, non è sorprendente. C'è una parte delle istituzioni sudanesi che non vedono di cattivo occhio il fatto che i predoni arabi (a quanto pare maggiormente legati al governo centrale) si espandano in Darfur ai danni degli agricoltori neri, bilanciando così le proporzioni fra la popolazione nera ora prevalente e l'etnia araba minoritaria in quella zona ma maggioritaria nel governo, sottolinea una fonte diplomatica occidentale. Arabizzazione o meno, in Darfur, così come accadde per il Sud Sudan, sembrano pronti a entrare in gioco anche importanti interessi internazionali. "È un caso l'improvvisa e martellante copertura mediatica internazionale? È comunque evidente che va di pari passo con la recente attenzione internazionale per il Darfur, inclusa quella di capitali potenti e lontane che d'improvviso scoprono e gridano allo scandalo per una crisi che era già in corso da più di un anno e che fino a poco fa, per esempio prima della visita del segretario di Stato americano Colin Powell, sembrava destinata ad entrare nel folto club delle guerre dimenticate. Anche in Darfur, come per il Sud Sudan, qualcuno spiega l'attenzione mondiale con la chiave del petrolio: secondo alcuni questa regione semidesertica sarebbe ricca di giacimenti, secondo altri invece rivestirebbe un'importanza chiave per l'utilizzo dei giacimenti presenti a sud. Una delle ipotesi maggiormente accreditate è quella che vede alcuni gruppi di potere e di pressione interessati a creare un oleodotto che colleghi direttamente i pozzi del sud e centro Sudan (quelli contesi per vent'anni da Khartoum e Spla) con il gigantesco oleodotto, costruito dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale, che porta il greggio dai giacimenti del Ciad meridionale fino al porto di Kribi sulle coste atlantiche del Camerun per un totale di oltre 1100 chilometri di tubazioni. Questo collegamento dovrebbe avvenire proprio passando attraverso la regione del Darfur, che potrebbe, dovrebbe, i condizionali in questo caso si sprecano, ospitare il raccordo. Per il momento il petrolio sudanese prenderebbe la strada opposta dirigendosi verso oriente e la costa sudanese sul Mar Rosso e quindi l'Oceano indiano dove il 40% del greggio sudanese partirebbe per la Cina, presente in loco con le sue due imprese nazionali di idrocarburi da anni", così l'agenzia di stampa MISNA esamina il caso Darfur.

Ad oggi in Darfur
non sono presenti i "peace keepers", i soldati di pace dell'ONU: sono invece presenti circa 7200 soldati dell'Unione Africana (l'Africa inizia a curarsi i propri mali ma con pochi strumenti). Per qualche ragione non proprio evidente il governo del Sudan non accetta l'intervento dell'Onu a differenza di quanto è accaduto per l'altra parte del paese: al termine del conflitto tra il nord e il sud del Sudan infatti, nel 2005, era stata approvata una missione di pace delle Nazioni Unite. Sembra quindi che il governo apra le porte all'ONU e alla comunità internazionale solo a una parte del paese, quella dell'est, precludendone invece l'accesso al nord, nella regione del Darfur.

Il Sudan resta uno dei principali produttori potenziali di greggio: a oggi il Sudan produce circa 500mila barili di greggio al giorno. La Nigeria, che è il principale produttore dell'Africa subsahariana, collocandosi al 7°/8° posto fra i principali produttori al mondo, esporta ogni giorno dai 2,3 ai 4 milioni di barili, nonostante i 2/3 della sua popolazione vivano con meno di due dollari al giorno.

 

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