Pubblicato su politicadomani Num 63 - Novembre 2006

Africa dimenticata
L'Eritrea tra il sogno dell'indipendenza e la realtà di un popolo devastato
Tra il sogno dell'indipendenza del 1993 e la realtà di un potere non legittimato che viola i diritti umani giorno dopo giorno, c'è un popolo dimenticato e un enorme spreco di risorse umane

di Francesco Stefanini

"Siamo nelle mani di un governo dispotico che viola i diritti umani giorno dopo giorno...e il mondo pare non accorgersi di nulla" così dice a "politicadomani" il Presidente di una delle sei ONG espulse dall'Eritrea il 9 febbraio scorso, che ha chiesto l'anonimato per la delicatezza delle sue dichiarazioni. "Tutto è bloccato - prosegue - scuola, università, informazione... tutto è sotto il controllo del governo e la gente non sa, è all'oscuro di tutto, non è al corrente di nulla... Molti, circa la metà degli eritrei, non sanno neanche in quale angolo di mondo si trovano". La denuncia esplicita e diretta dell'anonimo Presidente aiuta a far capire la situazione in cui si trova l'Eritrea (terra che si distende nella parte centro-orientale del continente nero, nel cosiddetto corno d'Africa affacciato sul Mar Rosso): un paese allo sbando che gioca a far guerra all'ONU e "rifiuta lo straniero, anche quello pieno di buone intenzioni... perché, forse, di fatto il governo ha paura del confronto e teme che le magagne della sua finta democrazia balzino troppo agli occhi... Una paura che le forze governative chiamano "autosufficienza" e nascondono dietro dichiarazioni del tipo "ce la caviamo da soli", un'efficienza solo di facciata" conclude il nostro leader della ONG in incognito.

Le ostilità Eritrea-Etiopia
E intanto le agenzie continuano a battere notizie di un'ostilità che sa di rivalsa: il governo di Asmara (capitale dell'Eritrea) guidato da Isaias Afewerki respinge gli appelli del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (l'organo che ha la responsabilità principale del mantenimento della pace e dalla sicurezza internazionale) di "immediato ritiro" dei circa 1500 soldati eritrei e dei 14 carri armati schierati dall'Eritrea nella fascia smilitarizzata al confine con l'Etiopia. Secondo Asmara il dispiegamento delle forze rientra nell'ambito di regolari "attività di sviluppo", ossia i militari starebbero "partecipando alla raccolta di prodotti agricoli". Il Consiglio, da parte sua, esprime "profonda preoccupazione", e chiede sia all'Eritrea che all'Etiopia di "astenersi dall'utilizzo della forza", confermando la presenza militare dell'ONU in territorio eritreo.
Per il segretario generale dell'ONU Kofi Annan la provocazione di Asmara è una "grave violazione" degli accordi di Algeri (12 dicembre 2000) che posero fine alla sanguinosa guerra tra Etiopia ed Eritrea durata due anni che è costata la vita di 100mila persone (di cui 19mila eritrei) per lo più militari, e che ha causato circa 1 milione di profughi eritrei, un quarto dell'attuale popolazione censita. Oggetto del contenzioso il triangolo di Bademmè, nella regione etiope del Tigrè, un fazzoletto di terra di 400 chilometri quadrati al confine tra i due paesi. Il conflitto si risolse poi con l'intervento dell'ONU (Unmee, Missione dell'ONU in Eritrea ed Etiopia) definita dal governo eritreo "senza senso, patetica ed estremamente fastidiosa", e con la designazione di una "Zona di sicurezza temporanea" (Tzs): un'area smilitarizzata presidiata da 4mila caschi blu dell'ONU rispetto alla quale l'Eritrea deve sistemare le sue truppe a venticinque chilometri di distanza mentre l'Etiopia deve attestare il suo esercito sulle posizioni di prima della guerra.

Una finta repubblica presidenziale
Ad oggi l'Eritrea (colonia italiana fino al novembre 1941 e poi, dopo il protettorato inglese, nel 1952, dichiarata dalle Nazioni Unite federata all'Etiopia) è diventata una finta Repubblica presidenziale, con un Presidente, Isaias Afewerki, che non è mai stato legittimato democraticamente: le votazioni, previste sia nel 1997 sia nel 2001, non sono mai state realizzate. È stata l'Assemblea nazionale che nel 1993 - dopo 30 anni di guerra civile (1961-1991) condotta dal Fronte di liberazione popolare che consentì al paese di conquistare l'indipendenza dalla "cugina" Etiopia - che ha consentito all'attuale Presidente di rappresentare l'intera nazione accentrando in sé tutti i poteri: di capo dello stato e capo dell'esecutivo. Ne risulta un'autorità di fatto e non di diritto, un governo che non è né sintesi e né proiezione dei quattro milioni di persone che popolano l'Eritrea.

La guerra all'ONU
Intanto è dal 15 settembre scorso che le Nazioni Unite non riescono ancora a comunicare con un dipendente della Unmee, la missione ONU in Etiopia ed Eritrea, arrestato il 28 agosto dalle autorità di Asmara mentre tentava di far fuggire illegalmente dal territorio eritreo alcuni civili. Fatto, questo, che segue l'espulsione del 6 settembre scorso di cinque caschi blu (originari di Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Sudafrica, Liberia e Trinidad e Tobago). "Sono stati fermati mentre, fuori dai loro compiti di missione, erano impegnati e costituire reti di spionaggio, reclutare mercenari e fornire strutture per la comunicazione", recita la nota ufficiale del governo eritreo in cui si notifica il provvedimento di espulsione. Ad oggi sono circa venti i collaboratori locali della Missione Onu arrestati dal governo di Asmara per ragioni ancora tutte da comprendere o, peggio, non ancora rese note.

Una leva permanente
Gli eventi sono indicativi di una tensione che attraversa il paese. Un paese in cui è obbligatorio il servizio militare permanente dai 18 ai 40 anni. Molti eritrei rifiutano e spesso disertano, perché temono di essere trattenuti per lunghi periodi, a volte anche per anni. Di solito, i primi sei mesi sono per l'addestramento, seguono poi altri 18 mesi con incarichi in vari dipartimenti dell'amministrazione locale che è gestita in gran parte da personale militare. Donne e uomini tra i 18 e i 40 anni sono costretti ad abbandonare la famiglia e a rinunciare ai loro progetti di vita, e sono obbligati a servire a tempo indeterminato l'esercito in attività tanto estenuanti quanto inutili. "Fino alla metà degli anni '90 i giovani venivano arruolati per un periodo di addestramento di 18 mesi e poi trattenuti in servizio per un altro anno: un servizio che la gente era felice di dare la proprio Paese" spiega alla MISNA un importante esponente della società civile dell'Eritrea, in esilio volontario negli Stati Uniti, e continua "ma poi il governo ha cominciato a prolungare senza fine il tempo della ferma, ed ora tre intere generazioni sono trattenute dall'esercito e nessuno viene più congedato". L'intervistato riferisce che la popolazione così "sequestrata" è impiegata in attività faticose e senza una vera e utile pianificazione: costruiscono prigioni, zappano campi arsi dalla siccità, piantano alberi nella stagione sbagliata. "Lo fanno senza alcuna retribuzione subendo continui abusi e violenze; i più fortunati hanno un 'rimborso' irrisorio di pochi dollari al mese" aggiunge l'interlocutore. "I giovani, e non solo loro, presto scelgono la via della diserzione e raccontano di essere stati sistematicamente picchiati e costretti a lavorare. Ma tornando a casa, involontariamente mettono in pericolo la loro famiglia: se la polizia non trova i disertori, vengono arrestati i genitori". La situazione è ormai diventata insopportabile per la popolazione eritrea, così orgogliosa della indipendenza dall'Etiopia ottenuta nel 1993 e ora, invece, intrappolata in una morsa dagli stessi combattenti che l'avevano liberata.

Le conseguenze sociali
"C'è una terribile frattura generazionale che spezza il Paese" spiega l'esule negli Stati Uniti, "quelli che si batterono nella più che trentennale guerra di liberazione, ed ora servono stabilmente nell'esercito e nella polizia, puntano il dito contro le nuove generazioni accusandoli di non aver fatto nulla per la nazione. La frustrazione che provano nel vedere l'Eritrea incapace di emanciparsi dalla crisi economica e politica li fa sfogare contro i giovani". Solo pochi riescono a sfuggire al servizio militare obbligatorio: quelli che superano l'esame di ammissione all'università e i malati. "Per le ragazze la situazione è anche più grave. Anche loro devono servire nell'esercito ma spesso vengono violentate e accade di frequente che tornano a casa in stato di gravidanza ad affrontare l'emarginazione della propria comunità. Inoltre, aver passato tanto tempo in promiscuità con gli uomini nelle caserme, lascia sulle donne un perenne marchio di vergogna".
Ma non si devono immaginare le vie di Asmara e delle altre città eritree piene di soldati in divisa e camionette militari. "Nulla di così lampante, a prima vista. Le persone reclutate, infatti, non indossano la divisa e restano in abiti civili sebbene siano assoggettate all'esercito. Svolgono i compiti loro assegnati, inutili e frustranti, e dormono nelle caserme".
"Un tragico, colossale spreco di energie umane", afferma l'intervistato.

Perché?
Come ha potuto questa nazione dieci anni fa così entusiasta e piena di speranze scivolare in una sorta di società militarista che gira inutilmente su se stessa?
"Il presidente Isayas Afwerki continua a ripetere che tutto questo è necessario per fronteggiare il nemico etiope fintanto che la frontiera tra i due Paesi non venga definitivamente demarcata. Ma tutto questo suona come una scusa. La militarizzazione della società è iniziata molto prima, quando il presidente aveva in mente la seconda guerra con l'Etiopia del 1998" continua l'intervistato. "Gli eritrei chiedono il pluralismo e la crescita di una vera opposizione politica, ma il presidente non lo permette sostenendo che ciò impedirebbe al Paese di concentrarsi sull'emergenza alla frontiera". Intanto l'Eritrea sta perdendo le sue forze migliori. "I giovani non hanno alcuna prospettiva per il futuro, gli adulti sono sfruttati in lavori inutili e non retribuiti, mentre le famiglie e gli anziani sono lasciati senza nessuno che si prenda cura di loro. La gente è depressa, piena di rabbia e frustrazione: aveva lottato per un sogno e si è svegliata in un incubo".
In questa nazione, inoltre, è il clima di sospetto e di omertà il sentimento che prevale: dal primo giugno 2006 "è necessario che tutti i cittadini stranieri, compresi i diplomatici, residenti ad Asmara, abbiano un permesso di viaggio per muoversi fuori della capitale" si legge in un comunicato diffuso dal ministero degli Esteri, che prosegue: "similmente, gli stranieri che lavorano fuori Asmara dovranno richiedere un permesso di viaggio ogni volta che dovranno muoversi fuori dalle città dove lavorano".

La "malacooperazione" italiana
È interessante sapere - e alquanto doloroso - il ruolo che l'Italia giocò nel 1998. "Una missione militare italiana sarà operativa quanto prima in Eritrea, fornendo equipaggiamenti e addestrando soldati e ufficiali della marina e dell'aeronautica" stabiliva un accordo di cooperazione militare firmato il 30 gennaio 1998 a Roma dall'ex ministro della difesa Beniamino Andreatta e dal presidente eritreo Isaias Afeworki. Non si conoscono altri particolari. Archiviata la stagione coloniale e quella neocoloniale (a buona ragione chiamata di "malacooperazione"), ci si aspettava che l'amicizia tra Italia ed Eritrea si rinsaldasse sulla base di ben altre forme di cooperazione che non quelle firmate dal governo italiano. Invece, quando l'Eritrea era un paese sul piede di guerra, è stata proprio l'Italia un fornitore privilegiato di armi.
Nel 1996 l'italiana Aermacchi siglò un contratto con il governo di Asmara per la fornitura di sei aerei da addestramento Mb-339C. Costo: 78,5 miliardi di lire. Come fece notare un rapporto di Oscar (l'Osservatorio sul commercio e sull'applicazione della legge 185 del 1990), malgrado la legge 185/90 vietasse d'esportare armi verso nazioni che hanno conflitti in corso o violano i diritti umani, questi commerci furono avviati e portati a termine comunque. Evidentemente la commissione che verifica la legittimità di tali esportazioni interpretò la legge in maniera assai permissiva. Nel giugno del 1998, infatti, l'Eritrea era protagonista di un conflitto con l'opposizione armata islamista; era coinvolta in una disputa territoriale con lo Yemen per le isole Hanish nel mar Rosso; tratteneva in carcere (e lo fa ancora) decine di prigionieri politici senza accuse né processo.
Un paese, quindi, che ha accarezzato il sogno della libertà per poi vedersela sottrarre nuovamente da un governo dispotico che ha intensificato anche la persecuzione religiosa ai danni delle minoranze cristiane in particolar modo contro i Testimoni di Geova e alcuni gruppi musulmani accusati di essere collegati a gruppi armati islamisti con base in Sudan. Nel 1995 i Testimoni di Geova sono stati privati dei diritti civili e tre di essi sono stati condannati a dieci anni di detenzione, da scontare nella base militare di Sawa, in quanto obiettori di coscienza per motivi religiosi. Nel 2002 sono stati messi al bando tutti i culti al di fuori di quelli ortodossi, cattolici, luterani e islamici. Lo scorso anno centinaia di fedeli, bambini compresi, appartenenti alle comunità cristiane evangeliche e pentecostali, sono stati arrestati, picchiati e torturati perché abiurassero la propria religione.
Sanno di beffa le parole dette dall'attuale Capo di Stato all'indomani del referendum dell'aprile del 1993 con il quale la popolazione optò per la liberazione dall'Etiopia: ammettendo l'interdipendenza delle economie etiope ed eritrea disse "dobbiamo lavorare insieme per favorire una vera e propria integrazione nelle aree chiave del nostro sviluppo. Non nascondo - però aggiunse - che sarà un cammino molto lungo".
Vero, aggiungiamo noi, e speriamo che lo percorra ...

 

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