Pubblicato su politicadomani Num 61/62 - Set/Ott 2006

Le paure di Israele
Una strategia che non paga
La sicurezza di Israele, così come dell'Occidente, passa insieme a uno strettissimo controllo militare (che non giustifica però gli attacchi), attraverso l'evoluzione democratica e culturale di coloro che sono i "nemici"

di Fabio Ciarla

Gli integralisti sono scesi in politica, mossa incente almeno nel breve periodo. La reazione di Israele è stata vaga, sembra infatti che non se ne sia nemmeno accorta, o meglio si è trincerata ancora di più nella vecchia tattica dello scontro frontale: nessun contatto con un governo gestito da Hamas. Decisione comprensibile ma non proprio lungimirante e, forse, fin troppo comoda: tutto perché sia mantenuto lo status quo che tanto conviene allo stato ebraico. Finché i palestinesi non sapranno esprimere un governo credibile e moderato che respinge l'estremismo, Israele avrà mano libera nell'accusare i palestinesi di terrorismo e continuare così a gestire l'occupazione dei territori a proprio piacimento e a ipotecare l'economia e la vita stessa del futuro Stato Palestinese.
Lo "status quo" è però esattamente la causa di instabilità dell'area ormai da decenni, e più esso si protrae più aumentano le possibilità che non si possa più tornare indietro. Che lo stato di fatto diventi condizione oggettiva e acquisita - in barba alle risoluzioni Onu che impongono ad Israele di lasciare i territori occupati nel 1967 - è la spada di Damocle che pende da sempre sulla testa dei palestinesi e del mondo musulmano tutto. Questa strategia che il governo di Gerusalemme sta perseguendo da sempre è rimasta immutata nonostante l'evoluzione della lotta palestinese e nel tempo è stata supportata dalle uccisioni mirate di esponenti del terrorismo o, a seconda del punto di vista, della resistenza palestinese, sia di provenienza integralista (Hamas), sia di provenienza 'laica' (al-Fatah).
Divenuti i supposti terroristi parlamentari democraticamente eletti, Israele non ha più potuto eliminarli fisicamente, ha quindi proceduto al loro arresto. Sono una decina i ministri palestinesi finiti nelle galere di Gerusalemme e quasi trenta i semplici parlamentari (Fonte: rainews24.it).
La sicurezza di Israele così come dell'Occidente passa, insieme a uno strettissimo controllo militare (che non giustifica però gli attacchi), attraverso l'evoluzione culturale e in senso democratico di coloro che sono i "nemici". Tuttavia, se il fine è chiaro e condiviso quasi unanimemente, non si può dire la stessa cosa dei modi impiegati per raggiungere il risultato. E infatti, tanto per completare l'opera di maggiore sicurezza sia pure a prezzo della quasi unanime riprovazione internazionale, Israele ha messo in atto una serie di attacchi di cui quello in Libano è stato il più "coperto" dai media ma non l'unico.
L'esercito israeliano è entrato pesantemente anche nella Striscia di Gaza dalla quale si era ritirato solo un anno fa consegnando di fatto il territorio nelle mani degli estremisti. Lo Shin Beth (il servizio di sicurezza interno) ritiene infatti che dal settembre 2005, approfittando del momento di forte debolezza dell'Autorità Palestinese, sarebbero entrate a Gaza 15mila armi da fuoco, 4 milioni di munizioni, 15 tonnellate di Tnt e 400 razzi anticarro (Fonte: rainews24.it). Il capo dei servizi, Yuval Diskin, dice che la Striscia potrebbe diventare come il Libano del sud nel giro di tre o cinque anni (ibidem). Difficile pensare però a un passo falso, a una sottovalutazione di Israele. Più facile è credere in una precisa strategia. Militarmente Israele è ancora lo Stato più forte del Medio Oriente. A livello diplomatico però, soprattutto per la debolezza della nuova classe dirigente, i nuovi avversari non possono essere facilmente sconfitti. Allora è più facile continuare a "dialogare" sul campo di battaglia piuttosto che sui tavoli della diplomazia internazionale, dove Gerusalemme si siede con sempre meno frecce al proprio arco.
Inoltre, la scelta di lasciare Gaza piuttosto che la Cisgiordania, dove si trovano le maggiori risorse idriche della regione, che è ancora saldamente sotto il controllo israeliano, potrebbe svelare un'altra ragione, neanche troppo nascosta: l'acqua, il bene più prezioso del Medio Oriente (ben oltre il petrolio) è molto probabilmente la chiave di lettura delle scelte Gerusalemme, che si troverà certamente in difficoltà quando la Cisgiordania sarà restituita ai palestinesi. Tanto più, quindi, la ricerca di una pace durevole dovrebbe essere l'obiettivo di entrambe le parti.
Senza contare che ormai da lustri le risoluzioni delle Nazioni Unite che impongono il ritiro dai territori occupati sono disattese, le strategia di "difesa" di Israele continuano a provocare le proteste della comunità internazionale. Esse riguardano il recente muro di separazione fra i territori che segue un tracciato incurante delle esigenze palestinesi e ruba una parte del loro territorio. La risposta al lancio dei razzi Hezbollah nel Libano del Sud, quei trentaquattro giorni di distruzioni, è stata eccessiva e numerose sono state le violazioni della tregua da parte dell'esercito con la Stella di Davide. Anche l'uso odioso delle "cluster bombs" (ordigni messi al bando per i loro effetti incontrollabili che colpiscono quasi sempre i civili) non ha giovato a Israele. Fra le tante nazioni hanno reagito la Russia, che ha chiesto un'inchiesta indipendente; l'Inghilterra che ha aperto le porte ad un governo palestinese di unità nazionale; e l'Italia che ha chiesto l'invio di truppe ONU nella Striscia di Gaza: un fronte variegato dal quale si distanziano solo gli Stati Uniti.
Senza un passo indietro da parte di Hamas che deve riconoscere Israele, da parte di Israele che non può pensare alla sua sicurezza solo in termini di potenza militare, e di tutti, perché si parli il linguaggio della politica e non quello delle armi, la pace in Medio Oriente sarà ancora molto lontana.

 

Homepage

 

   
Num 61/62 Sett/Ott 2006 | politicadomani.it