Pubblicato su politicadomani Num 61/62 - Set/Ott 2006

La paura dell'altro

di Roberta Lombardozzi

Il 29 giugno si è svolto a Velletri un convegno organizzato dalla Caritas e da Vol.A.Re., associazione di volontariato che opera nel carcere di Velletri. Argomento del dibattito è stato "La paura dell'altro".
Scopo del convegno era di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle problematiche carcerarie, e soprattutto cercare di capire le motivazioni che portano molti di noi ad avere paura dell'altro, specie quando "l'altro" è un ex detenuto. Gli interventi e il dibattito hanno chiarito situazioni e pregiudizi ed hanno aperto la porta ad un confronto schietto su un tema non facile.
Chi è stato in carcere fa scattare nella gente comune un senso di rifiuto e di allontanamento che derivano dalla paura di essere coinvolti in situazioni pericolose.
Tutti i "diversi" generano paura: il malato mentale, l'emigrato, il tossicodipendente, il carcerato.
La nostra cultura, e forse anche le nostre leggi tendono ad integrare il diverso negando in qualche misura l'obiettiva esistenza della diversità. È il non sapere che genera paura.
Anche quando il reato non è grave, non cambia il senso di rifiuto: la persona rimane sempre da tenere alla larga.
Nella nostra storia recente alcune paure sono state dominanti: durante il fascismo ed il nazismo, diversi e senza diritti erano ebrei, omosessuali, malati di mente e handicappati. Negli anni settanta, con la strategia del terrore delle stragi di Milano e Bologna, diversi erano le Brigate rosse e i militanti della lotta armata. Oggi sono diversi i clandestini che giungono in Italia da paesi dove la povertà è assoluta e non c'è speranza di futuro. Gente che arriva nel nostro paese convinta di trovare l'Eldorado, con una grande voglia di farcela, sperando soprattutto nella nostra solidarietà.
Molti ne hanno paura: pensano che potrebbero toglierci case e lavoro, facendo più figli in futuro certamente saranno più di noi e c'è la paura che vogliano imporre la loro religione. Una paura che si affianca a quella del terrorismo, il nemico oscuro e subdolo, che non ha un bersaglio preciso, ma colpisce alla cieca gente senza colpe. E questa paura dilaga.
È nell'esame di queste paure, molto spesso infondate, che si è sviluppato il convegno. Negli interventi tutte queste paure sono state ridimensionate e la figura del detenuto che esce dal carcere e ricomincia a vivere è stata descritta con maggiore realismo. Spesso un ex detenuto, varcato in uscita il portone del carcere, è solo, senza casa, senza lavoro né una famiglia, che spesso lo rifiuta, senza amici. Non sa cosa fare né dove andare. Le istituzioni non sono in grado di intervenire e lasciano questo compito ai volontari che in carcere riescono a creare rapporti umani molto intensi e li aiutano così a superare la solitudine e lo sconforto.
Il cammino di maturazione nel contatto con i detenuti è reciproco ma è un cammino lento.
Il convegno si è chiuso con una serie di domande con le quali continuare la riflessione:
- Come immagino la vita di un detenuto nel carcere?
- Quanto è difficile per un detenuto tornare alla vita normale?
- Non esistono più le pene corporali, ma la privazione della libertà è una pena che rende il corpo docile e la psiche debole. È giusto tutto questo? È possibile una soluzione alternativa?
- La mancanza di libertà in che misura influisce sui rapporti affettivi?
- La paura nei confronti di un detenuto aumenta se si ha conoscenza del reato commesso?
- Questa paura dipende dall'idea che un detenuto possa commettere di nuovo lo stesso reato?
- Perché il diverso, genera comunque paura?
- Ammettere che si può sbagliare, e che ci si può ravvedere, indebolisce le nostre certezze?

 

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