Pubblicato su politicadomani Num 61/62 - Set/Ott 2006

Intervista con il comandante, nel carcere di Velletri
Una mezz'ora di intervista si è trasformata in tre ore e mezzo di racconto di una vita a contatto con la realtà del carcere, con umanità e umiltà

di Maria Mezzina

Quando te lo vedi davanti pensi subito a un gigante: alto, massiccio, un po' stempiato, barba lunga brizzolata. Poi, dopo pochi minuti che ci parli l'espressione del viso franca e sincera, gli occhi limpidi, la voce calda e cortese te lo trasformano nel "gigante buono".
È arrivato a Velletri il 12 settembre di cinque anni fa Andrea Quattrocchi, il Comandante della polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Velletri, il giorno dopo quell'11 settembre delle torri gemelle, ma lavora negli istituti di pena da 33 anni. Ha fatto il linotipista, quando le pagine venivano ancora composte con i caratteri a piombo e lui, per legge, era costretto a bere due litri di latte al giorno per disintossicarsi dei fumi di piombo. Da buon geometra, gli piace il disegno tecnico e per gioco e per passione sua personale fa progetti di appartamenti: tutte le misure, dai 40 ai 400 metri quadri.
I ricordi di una vita intensa e ricca di esperienze si snodano in questo racconto che non è un'intervista, è piuttosto un guardarsi dentro e aprire per noi una finestra su un mondo che crediamo "diverso". Il Comandante continua a parlare e l'intervista, che doveva durare poco più di mezz'ora, si protrae. I ricordi personali si intrecciano con le tante esperienze di carcere - il Comandante è stato in molti istituti di pena italiani - le informazioni si animano della passione di chi, facendo questo lavoro, ha conosciuto persone che hanno segnato la storia del nostro paese nel bene e nel male: come i giudici Falcone e Borsellino (il Comandante è scampato all'eccidio sulla Palermo-Trapani solo per un ritardo di mezz'ora) e il Generale Dalla Chiesa; i capi mafia del 41 bis; i pentiti e i pentiti di essersi pentiti; ergastolani e gente che è stata additata come mostro; ma anche gente splendida finita in carcere per l'impulso di una passione, per essere stata messa in mezzo, per fatalità e sfortuna.
Racconta, il Comandante Quat-trocchi. E’ il suo ufficio, che è una festa di piante (non solo il pollice, ma tutte le dita del "gigante buono" sono verdi), si trasforma in una delle spiagge dell'Asinara (450 metri di sabbia finissima con venature di corallo), in un 15 agosto d'estate con la famiglia, sotto un ombrellone blu a pallini, e con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a mangiare pesce appena pescato. Diventa la stanza del supercarcere dell'Asinara, isolato dal mondo e sorvegliato da quattro sentinelle, dove i due giudici Borsellino e Falcone passavano chini le notti sulle loro scrivanie affiancate ad elle, studiando i fascicoli di quei 321 faldoni che porteranno sempre con sé nei trasferimenti e guarderanno a vista: carte illuminate da un'unica lampada stile belle epoque che lascia diffondere la luce solo verso il piano, mentre le luci centrali rimangono spente. Per precauzione.
All'Asinara il Comandante, l'unico siciliano che Falcone ha accettato attorno a sé, fa parte della scorta e ogni tre o quattro giorni deve procurare il mangiare per i giudici, che si trovano anch'essi nel carcere , in "isolamento". "Non hanno pagato alcun affitto, contrariamente a quanto poi è stato scritto sui giornali - dice il Comandante con una punta di legittimo orgoglio per la correttezza delle istituzioni - ma preferivano acquistare da sé il cibo dei pasti, e allora la scorta si muoveva. Ogni volta un fornitore diverso, una città diversa". Tanta precauzione diventa perfino un gioco eccitante.
"Come sono i rapporti con i capi mafia? Non è gente comune" osservo.
Per il Comandante questa domanda è ancora una volta l'inizio del filo di ricordi e di esperienze personali profonde: "Una volta il regime del 41 bis era più pesante, oggi lo è meno. Il rapporto con i capi mafia è improntato al rispetto personale ed è facile capire quanto rispetto i capi mafia hanno per te da come ti parlano: il "tu" è sprezzante, il "vossìa" (voi), è segno del loro rispetto". Con il Comandante hanno usato sempre il "vossìa".
La voce si abbassa, il tono è appena un po' più cupo, affiorano episodi che si vorrebbe non fossero mai avvenuti, ricordi dolorosi:
"Con uno di loro, accusato di nove omicidi, con molta probabilità ho giocato da ragazzo: abitava nel mio stesso quartiere, nella palazzina di fronte, e siamo coetanei. Non posso non avere giocato da ragazzo con lui ...
Tra i detenuti c'è quello che ha procurato la macchina per l'omicidio di Paolo Borsellino. Venuto in ufficio ha visto la foto dei giudici Falcone e Borsellino e ha abbassato la testa. "È stato uno sbaglio" ha detto. "No, una strage inutile" gli ho risposto.
È capitato pure nell'arco della mia carriera di arrestare persone che non avrei mai voluto arrestare. 26 anni fa ho arrestato un educatore. Ho eseguito arresti all'esterno degli istituti di pena. Purtroppo ho arrestato anche dei colleghi.
Sono stato in un super carcere della Sicilia e dopo tre giorni che ero lì come Comandante sono iniziati problemi con alcuni detenuti.
Il nostro è un lavoro di umiltà e di dialogo da entrambe le parti. Negli ultimi 15 anni sono cambiate le norme comportamentali. Quelli che sono qui stanno pagando la loro pena, non c'è bisogno di ulteriori pene.
In tutti gli istituti penitenziari ci sono commissioni di detenuti di tutti i tipi, da quella sportiva a quella per il cibo - previste dal l'ordinamento penitenziario - con le quali si parla per risolvere i problemi e tenere conto delle richieste dei detenuti. Ricordate quello che avvenne in tutte le carceri italiane per spingere il Parlamento ad approvare l'indulto? I detenuti battevano posate e pentole sulle sbarre delle celle per attirare l'attenzione e manifestare così la loro protesta. Io ho chiamato i rappresentanti dei detenuti e ho chiesto loro di non attuare questo tipo di protesta, anche per distinguersi, in quanto avrei mandato un fax agli organi di stampa dicendo che i detenuti del carcere di Velletri si univano alla protesta generale. In questo modo la tensione si è allentata ed è ritornata la calma. Solo un'altra volta i detenuti hanno battuto le pentole sulla sbarre, ma allora si trattava del loro modo di manifestare la contentezza per uno di loro che se ne andava per ritornare in libertà: è stata una grande manifestazione di gioia".
Continua a raccontare il Comandante, e con gli occhi della mente vediamo i detenuti stranieri con i quali è difficile comunicare se non conoscono un po' di inglese o francese, e quelli che fanno da interpreti agli altri, poveracci, in genere, che fuggono da fame e miseria. Vediamo il detenuto africano che parla una lingua sconosciuta che nessuno capisce, al quale inutilmente, a gesti, era stato tentato di spiegare fra due alternative quella migliore per lui, ma lui non ha capito e alla fine ha scelto quella peggiore. Ammiriamo le pareti dell'istituto di pena affrescate da un detenuto artista, di altissimo livello, uno che ha fatto importanti mostre di dipinti: una Crocifissione sul Golgota tenuta stilisticamente unita dalle volute di una frusta di un soldato romano. L'arte è uno strumento prezioso e potente di espressione di sé e di redenzione. Vediamo il povero Onofrio* - tre lauree, l'omicidio dell'amante della moglie - morto "suicida" dissanguato, perché per curare l'ipertensione i detenuti usano farsi dei piccoli tagli longitudinali sulle braccia per far uscire del sangue e attenuare la pressione; ma lui i tagli li aveva fatti sbagliati, anziché in verticale li aveva fatti in orizzontale.
Sentiamo, infine, quel parlottare con il quale, in occasione dei mondiali, è stato concesso ad alcuni detenuti in regime di carcere duro, di vedere la partita finale per televisione.
Alla fine il Comandante ci mostra felice il Registro 118, quello della "conta", dove sono annotate le presenze dei detenuti giorno per giorno: torna indietro con le pagine e poi le sfoglia in avanti, una per una: 379, 365, 350, ... , 277, ... , 246 ieri, e oggi 245. Finalmente la casa circondariale di Velletri respira. "L'indulto, buono o cattivo che sia, è stato una benedizione. Ora si può nuovamente pensare di progettare per il futuro. E non è vero che le carceri dopo l'indulto si sono nuovamente riempite: solo l'uno percento è rientrato", osserva il Comandante.
Sono passate oltre tre ore e ancora c'è molto da dire: del carcere minorile di Casal del Marmo di Roma, e dei rapporti con quei ragazzini chiusi lì, ma con i quali si facevano anche delle gite fuori; delle cooperative di ex detenuti, splendidamente inserite nel mondo del lavoro; dei progetti passati e futuri della casa circondariale; delle persone che li creano, li spingono e vi lavorano dedicando energia e passione.
L'impressione, potente, è quella di un mondo a parte, dimenticato dal resto del mondo, nel quale con il dolore c'è anche tanta passione e tanta speranza. "Anche tanta cattiveria, ma di quella parleremo un'altra volta" dice il Comandante offrendoci un caffè fuori dell'ufficio. Poi, con la sua biposto elettrica, sulla quale c'è spazio solo per lui, passo passo ci accompagna verso l'uscita.

* Il nome è, naturalmente, fittizio

 

La Poesia

Io,
nell'impossibilità di essere amato,
non ho tenerezze.
Sono ...
... un uomo senza amore.
Mi angoscio,
non ho tenerezze.
Posso farti tenerezze???
Un uomo in carcere,
senza l'amore appassisce
come un petalo di rosa.
... ho bisogno di darmi!!!
(da: "Il sogno del prigioniero" di Nunzio - Poesie dal carcere)

 

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