Pubblicato su politicadomani Num 61/62 - Set/Ott 2006

Il sapore amaro della vendetta
La giustizia degli uomini
Una pena che non lascia spazio al cambiamento e alla riconciliazione è inutile e incivile
perché è basata sulla demolizione della dignità umana e della individualità

di Angelo Bottaro

Nella mia abitazione ho subito ad opera dei soliti ignoti due furti, uno dei quali lasciò il marchio: cassetti rovistati e ribaltati, stanze messe a soqquadro, effrazioni, ingenti danni materiali. Ho subito il furto di tre motocicli, dei quali uno ancora in fase di rodaggio. Ho subito una rapina a mano armata che mi costò l'intera busta paga del mese di agosto e un grande spavento. Ho subito due furti con destrezza che mi privarono oltre che del denaro che avevo nel portafoglio anche di un ricordo molto caro, oltre che di tutti i documenti.
Ho subito senza aver innescato alcuna provocazione o offerto il minimo pretesto due aggressioni, la prima ad opera di un gruppo di teppisti che si limitarono a darmi qualche schiaffo e a sputarmi addosso, la seconda nella quale rischiai grosso perché se i pugni ed i calci dell'energumeno che mi prese di mira fossero andati a segno oggi non starei qui a esprimere la mia opinione. Nella circostanza subii anche un violento trauma che mi causò per più di un anno terribili crisi d'ansia.
Tralascio la serie infinita di turpiloqui dei quali sono stato soggetto ed oggetto, di minacce, di prepotenze, di violenze soprattutto psicologiche. Bene, in molte occasioni ero così arrabbiato e così frustrato che ho perfino accarezzato l'idea di una vendetta, di una esemplare ritorsione, di una lezione che lasciasse segni e cicatrici permanenti. Uno dei miei persecutori lo avrei visto volentieri passare a miglior vita, magari con una spintarella. In ogni caso ero tra quelli che nutrivano la certezza che certa gente sta bene solo in galera e che in molti casi bisognerebbe gettare via la chiave della cella, per sempre. Ero anche convinto come tanti che in galera si sta fin troppo bene: letto e cibo assicurati e tutte le comodità.
Poi ho cambiato atteggiamento e opinione: per un caso strano della vita sono entrato in un carcere e per giunta ci ho messo piede di mia spontanea volontà Come volontario ex art. 78 del regolamento carcerario ho in poco tempo capito che potevo cercare giustizia e riparazione solo collaborando e aiutando qualcuno a ritrovare la dignità perduta, a prendere coscienza del male compiuto, a riconoscere il proprio errore, a sperare in una vita e in un avvenire migliori per sé e per la propria famiglia. Ho scoperto che i detenuti sono esseri umani, per lo più persone comuni più che normali, che hanno spesso, troppo spesso, tragiche e amare storie da raccontare, che hanno un passato, un presente e un futuro da vivere, che in fondo hanno paura e molte insicurezze, che hanno anche mogli, figli, genitori anziani e cioè persone care che hanno avuto poco o nulla a che fare con il reato commesso, ma pagano pesantemente e in solido.
Sì, ho cambiato opinione in maniera radicale, perché il carcere è davvero una brutta, orribile realtà, è causa di grandi sofferenze e soprattutto è un luogo senza prospettive e senza speranza. Un esempio? Due ore di aria al giorno, le restanti ventidue in una cella stretta, gelida d'inverno, soffocante d'estate, a guardare il soffitto o Maria De Filippi, per ore e ore, per giorni e giorni, per settimane, per mesi, per anni. Insomma una pena, un sistema di regole basato sulla demolizione e sulla cancellazione della dignità, della personalità, della individualità che nella migliore delle ipotesi fa scivolare il condannato in uno stato di apatia, di regresso, di infantilismo. Un altro esempio? Decine di migliaia di reclusi nella loro totalità sono privati completamente delle normali relazioni sessuali o di qualsiasi contatto affettivo, dei loro più elementari bisogni umani. Perciò questi uomini e queste donne, per la maggior parte nel pieno delle forze psichiche e fisiche, ripiegano sulla omosessualità o sulla aggressività, sull'autolesionismo, talvolta mortale, per sfogare insopprimibili pulsioni emotive e affettive, per uscire dalla solitudine e dalla completa inattività, che spesso degenerano in depressione o in disperazione. Perfino ai reclusi sposati non è consentito di unirsi con le loro rispettive, legittime mogli.
È questa in pratica la traduzione del dettato costituzionale che prevede che la pena debba avere esclusivamente finalità rieducative, piuttosto che ritorsive e repressive?
Io non mi sento risarcito e non sto meglio sapendo che i ladri che hanno svaligiato casa mia trascorrono le loro giornate nell'ozio e nel disimpegno più totale e che a fine pena usciranno con molta più rabbia e con molto più rancore verso le istituzioni, verso la società, verso il mondo intero. Senza il recupero difficile, ma non impossibile, e senza la conversione graduale e sincera dell'autore di un reato contro persone o cose non può esserci giustizia vera e nessuna vittima può sentirsi veramente appagata, risarcita, indennizzata: "perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalla leggi." Questa la conclusione dell'opera più famosa che mai sia stata pensata e scritta in materia di delitti e di pene, autore Cesare Beccaria, anno 1763-1764: da allora in concreto non è stato detto o fatto nulla o quasi che sia degno di nota.
Per fortuna questo immobilismo colpevole e scandaloso tocca soltanto la giustizia umana, perché la giustizia divina, nel frattempo, non ha mai smesso di "funzionare", senza bisogno di far ricorso ad indulti o a misure strumentali e demagogiche, senza mai chiudere per ferie, operando giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro, da tempo immemorabile, molto prima che Cesare Beccaria venisse al mondo e concepisse il suo capolavoro.
E così l'utopia di una riconciliazione vera, sincera, definitiva qualche volta diventa anche realtà.

 

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