Pubblicato su politicadomani Num 61/62 - Set/Ott 2006

Finanza e mercati
Fusioni e acquisizioni bancarie
Quale significato e quale convenienza per la gente comune?

di Romeo Ciminello

(Professore di Scienze Sociali presso la Pontificia Università Gregoriana - Roma)

Molti di noi certamente, leggendo giornali quotidiani e rotocalchi, cercano di capire ciò che non sempre è scritto e conosciuto con chiarezza e competenza.
Con ciò non voglio assolutamente addossare colpe ai giornalisti o a coloro che fanno il mestiere di comunicatori, quanto più vorrei richiamare l'attenzione di ciascuno di noi a porre un maggior impegno nell'informarsi sulle notizie che apprende per formarsi una propria autonoma opinione dalla quale poi far discendere decisioni che prima o poi gli richiederanno un intervento di tipo politico, vale a dire uno schieramento preciso da esprimere con il proprio voto.
Pertanto prendendo spunto da quanto scritto a pag. 126 dell'Espresso del 14 settembre scorso, vorrei fare una riflessione per cercare di comprendere qual è il significato del titolo: "Risiko bancario. - La scalata alla Lombarda, i piani di Capitalia, la corsa alle popolari, Unipol e le Coop, ecco le grandi manovre del credito."
Cerchiamo innanzitutto di capire di cosa si sta parlando.
Ovviamente, qualcuno direbbe, di fusioni bancarie. Ebbene, come fa il cittadino comune a capire come e dove informarsi per costruirsi un proprio autonomo senso critico di fronte al problema?
Allora andiamo per gradi.

LE BANCHE SONO IMPRESE
Spieghiamo subito che il mondo bancario appartiene ed è nient'altro che un piccolo spaccato del più grande mondo imprenditoriale. In tale ampia sfera si inserisce quella che sentiamo normalmente chiamare pratica della finanza straordinaria; oppure con il termine inglese di M&A, vale a dire Mergers and Acquisition [fusioni e acquisizioni, n.d.r.]; oppure, per dirla in italiano, il settore della finanza straordinaria o societaria che concerne l'attività straordinaria di governance, che passa sotto i nomi di fusione, acquisizione, concentrazione, scorporo, cessione di ramo d'azienda ecc...
Tutti questi termini, servono ad indicare una realtà molto semplice: il sistema che una società, che sia essa per azioni o a responsabilità limitata, adopera quando decide di cambiare il proprio assetto, ampliandolo o restringendolo sulla base delle proprie disponibilità di capitale. Va da sé che dette disponibilità si ricollegano immediatamente a due altri elementi: la strategia di mercato e la strategia di profitto.
Orbene, appurato che l'obiettivo tutto sommato è sempre e comunque di natura economica in quanto qualsiasi impresa si riscontra praticamente nella propria organizzazione aziendale - che altro non è se non una strutturazione di mezzi e persone rivolta ad un obiettivo di profitto -, passiamo ad esaminare brevemente altri punti importanti.
La banca o azienda creditizia, è un'impresa. Ovviamente, mentre l'impresa in se stessa richiama in prima battuta il concetto di rischio, l'azienda richiama anch'essa in prima battuta l'altro elemento cioè il profitto.
Quindi, chiarito questo primo punto, diciamo subito che la banca è anche nel nostro Paese, dal 1 gennaio 1994, in virtù del testo unico bancario 385/93, una organizzazione che svolge attività di impresa e quindi, attraverso il servizio bancario, di credito, finanza e servizi assimilati, mira alla massimizzazione del profitto da distribuire tra i propri azionisti oppure da accantonare per autofinanziamento. Pertanto la banca può essere quotata in borsa, emettere obbligazioni e svolgere tutte quelle attività societarie, comprese dunque anche quelle di M&A.

LA SITUAZIONE ATTUALE DELLE IMPRESE BANCARIE
Procedendo per ordine cerchiamo di capire dove possiamo farci un'idea della situazione. È bene non accontentarsi della semplice informazione generale, ma rivolgersi all'autorità competente, in questo caso la Banca d'Italia, e vedere che cosa dice di preciso a proposito di questo argomento.
Da una tabella che si trova a pagina 324 dell'ultima Relazione della Banca d'Italia presentata il 31 maggio scorso dal Governatore possiamo farci un'idea abbastanza concreta dell'evoluzione di questa realtà soprattutto se la leggiamo alla luce della spiegazione che ne viene data:
"Nell'ultimo decennio le operazioni di concentrazione che hanno interessato le banche italiane sono state 439 (cfr. Tav. E2). Rispetto al quinquennio precedente, nel periodo 2001-05 è diminuita la rilevanza delle operazioni realizzate sul mercato domestico: la quota delle attività del sistema bancario del nostro paese facente capo alle banche italiane incorporate o acquisite da altre banche nazionali è diminuita all'8 per cento, dal 37 del periodo 1996-2000. È invece significativamente cresciuto il peso delle acquisizioni transnazionali: la quota delle banche italiane acquisite da soggetti esteri e quella di banche estere acquisite da intermediari italiani sono aumentate, nel complesso, dal 3 al 27 per cento dell'attivo del sistema bancario nazionale. Alla fine del 2005 le banche quotate erano 34, una in più rispetto all'anno precedente; di esse, 28 erano a capo di gruppi bancari e 5 facevano parte di gruppi; nel complesso, rappresentavano il 74 per cento dell'attivo totale delle unità operanti in Italia. Solo 3 dei primi 20 gruppi per attivo consolidato non sono quotati in borsa.
Da quanto sopra si evidenziano quindi due interessanti considerazioni, la prima concernente il grande numero e quindi l'importanza di tali operazioni per il settore, e l'altra concernente il fatto dell'apertura sull'estero sia da che per.

CUI PRODEST? (A chi giova?)
Passiamo ora a cercare di capire quali possano essere i moventi che spingono a tali operazioni e che tengono tanto impegnati organi di vigilanza e mass media oltre a noi comuni cittadini che cerchiamo di derivare qualche profitto dall'acquisto o la vendita in borsa di titoli in odore di M&A.
Dai numerosi studi sull'economia delle fusioni bancarie, che possono trovarsi facilmente su diversi siti internet, emergono le seguenti principali motivazioni: innanzitutto le cosiddette economie di scala su costi (sia del personale che delle strutture), su marchi (brand), su strategie di profitto, su consolidamento di posizioni di mercato, anche a volte in funzione di difesa anti acquisizione.
Oltre alle precedenti potrebbero individuarsi anche economie di scopo su costi, profitti, o diversificazione finanziaria, vale a dire l'attuazione di strategie, veicolate da M&A, per ottenere benefici altrimenti non facilmente raggiungibili.
Oltre a queste ragioni, vanno ricordate poi quelle che mirano all'efficienza, oppure al mantenimento o all'ampliamento del potere di mercato o, ancorché non sempre palesi, incentivi manageriali, intesi come poltrone, stipendi, stock-option ed altre agevolazioni.
Per noi comuni cittadini, al di là di quelle che possono essere le motivazioni più approfondite, il buon senso ci suggerisce di riassumere in tre punti importanti dette motivazioni. Il primo dovrebbe essere il miglioramento del servizio alla clientela, vale a dire un maggior valore aggiunto in termini di fruizione del servizio reso; poi un maggior valore aggiunto per l'organizzazione del personale ed infine un maggior valore aggiunto per gli azionisti. Purtroppo, dando uno sguardo alle diverse fusioni avvenute nel nostro Paese, ciò non sembra essere pienamente riscontrato. La ragione è facilmente intuibile. Le fusioni nel nostro Paese, per tradizione, non si fanno sulla base di piani industriali finalizzati a determinati obiettivi politico-strategici, bensì viceversa: per convincere della bontà di obiettivi politico-strategici si creano piani industriali ad hoc, si stimolano variazioni di quotazioni borsistiche, si cavalcano notizie e si attuano operazioni che a volte, se non sconfinano nel cosiddetto insider trading, poco ci manca. Infatti in una ragnatela di partecipazioni del tipo presentato in questo articolo dell'Espresso presa dalla fonte UBS 28/8/2006 qui riportata è facile capire in maniera inequivocabile che gli intrecci sono talmente complessi che non è possibile attuare strategie di M&A che non tengano conto degli interessi dei manager, che sono ai vertici e che non hanno alcuna intenzione di perdere prestigio e prerogative economiche. È facile intuire, quindi, che esiste un conflitto di interessi congenito, dovuto alla mancanza di indipendenza ed al coinvolgimento plurisocietario degli stessi manager.

GLI EFFETTI NASCOSTI DEL M&A
Allora tutte le prospettive economiche prima citate cambiano aspetto e mettono in evidenza i cosiddetti effetti nascosti che per ragioni di spazio mi limito soltanto ad elencare.
Il primo di tutti è l'interesse del management nel senso prima citato.
Poi, al secondo posto, c'è la quotazione di borsa e quindi le manovre speculative sottostanti. Chi ha qualche esperienza sa bene che nell'acquisizione c'è un acquirente ed un target [l'impresa acquisita, n.d.r.]: normalmente sul mercato azionario si vendono le azioni dell'acquirente [che hanno una quotazione elevata n.d.r.] per acquistare quella del target [che, invece, stanno scendendo, n.d.r.], inducendo il prezzo a salire, in attesa della cosiddetta offerta pubblica d'acquisto (OPA). Il valore dell'OPA è in genere un po' superiore al valore di mercato delle azioni dell'impresa che deve essere acquistata (target), e pertanto l'acquisizione è in funzione di un maggiore profitto.
Vi è inoltre il problema delle stock-options, vale a dire le azioni attribuite al management a titolo di premio per il loro operato, che stimolano ad una lenta e progressiva manipolazione delle quotazioni, allargando la dicotomia esistente tra il valore effettivo della società ed il suo effettivo valore sul mercato.
Ciò che si attua quindi con le fusioni, tranne che in rare eccezioni è un risparmio fiscale, è un aumento di opportunità di acquisizione di maggior potere e di arricchimento da parte del management che la persegue, è un’occasione di riduzione del personale, è un'occasione di ampliamento di potere soprattutto attraverso i cosiddetti patti di sindacato [accordi in base ai quali un gruppo di soci decide di concordare strategie comuni di gestione sulle politiche di governo dell'impresa, n.d.r.].
Per quanto riguarda invece i cittadini clienti nulla cambia, anzi la minore concorrenza rende le condizioni più gravose e ne riduce anche il potere contrattuale.

PERCHÉ FARE FUSIONI E ACQUISIZIONI
Le motivazioni, discutibili, per le operazioni straordinarie possono essere così riassunte.
La prima è la diversificazione. Alcuni manager, talvolta, anziché distribuire con i dividendi le ingenti disponibilità liquide a disposizione, preferiscono investirle in integrazioni con altre imprese operanti in mercati più o meno vicini, sulla base del principio che la diversificazione delle attività riduce il rischio.
La seconda motivazione è riconducibile al cosiddetto bootstrap game, che ebbe una particolare fortuna durante l'ondata di fusioni degli anni '60. Esso consiste nell'acquisizione di imprese che, rispetto all'impresa acquirente, hanno minori prospettive di crescita e un rapporto P/E (Prezzo/Utili) relativamente più basso, ottenuto giocando sulla divisione degli utili fatta su un minor numero di azioni e, quindi, sull'aumento degli utili stessi per ogni azione, grazie al fatto che dopo la fusione c'è un minor numero di azioni in circolazione: la parte acquirente paga infatti l'impresa acquisita con azioni il cui valore sul mercato è maggiore del valore delle azioni dell'impresa acquisita.
Partendo dal presupposto che l'acquisizione non apporta benefici e non crea valore, il prezzo delle azioni post-merger [dopo la fusione, n.d.r.] resta invariato e, poiché gli utili aumentano, il rapporto P/E si riduce.
Si tratta perciò di ingannare il mercato sulla reale portata dell'operazione. Inoltre, se il top-management è sufficientemente abile da far credere agli investitori che quella crescita degli utili sia dovuta agli investimenti del dopo-fusione e alle potenzialità di crescita in seguito alla fusione o all'acquisizione, gli investitori si affretteranno ad acquistare le azioni, il cui prezzo quindi salirà fittiziamente, perché non supportato da reali prospettive di crescita o da interventi sulla gestione effettivamente intrapresi, solo "grazie all'acquisto di aziende con un basso tasso di crescita e con bassi rapporti prezzo/utili".
La terza motivazione è quella della diminuzione dei costi di finanziamento. Con la fusione: è possibile conseguire economie di scala perché la riduzione delle emissioni e l'aumento del loro importo unitario permette di risparmiare sui costi di emissione. Inoltre, il tasso d'interesse al quale è possibile ottenere finanziamenti è più basso rispetto a quello stand alone [quello, cioè, che otterrebbero le imprese singolarmente e separatamente, n.d.r.]. Infatti le imprese oggetto della fusione garantiscono l'una per i debiti dell'altra, riducendo così il rischio degli obbligazionisti.
Tuttavia, questa riduzione del rischio ha un prezzo che pagano gli azionisti delle imprese fuse. Gli azionisti infatti - soprattutto i piccoli azionisti - pagano le maggiori garanzie degli obbligazionisti con il rischio di vedere diminuito sia il valore, sia i dividendi delle proprie azioni. Tale rischio azzera di fatto i benefici del minor costo del finanziamento che le imprese che si fondono riescono ad ottenere.

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