Pubblicato su politicadomani Num 58 - Maggio 2006

Accanto ai dipinti del Beato Angelico
Giorgio La Pira, un santo... un tormento
La sua casa, una cella nel convento di San Marco a Firenze. Il mappamondo sul comodino, accanto al Vangelo. Il sindaco visionario di Firenze che ha incontrato i grandi del mondo e ha segnato nel profondo chi lo ha conosciuto

di Gianni Gennari

Per tutti i fiorentini era il "sindaco", e lo è rimasto anche quando non lo era più. Bastava dire "sindaco" e la gente pensava a lui. Nessuno poteva ignorarlo. Lo chiamavano "il pazzo". Lo chiamavano "il santo". Nella storia antica i due termini si incontrano spesso insieme. In quella moderna meno. Lui era moderno, ma sapeva di antico, e insieme di nuovissimo. Giorgio La Pira: nato nel 1904 a Pozzallo, estremo sud della Sicilia, dove le viti basse basse arrivano a due metri dal mare, e fanno l'uva dolcissima. Anche lui era proprio basso, di statura, e quando parlava sapeva essere dolcissimo, ma anche tagliente come il vento che dalle sue parti spazzava il mare.
Studia da ragioniere, poi lavora, si prende anche la maturità classica e si iscrive a legge. Il suo professore di diritto, Betti, lo porta con sé a Firenze, dove si laurea a 23 anni. A venti anni ha trovato anche Gesù Cristo. Prima era, se non ateo, indifferente. Va a studiare, per specializzarsi, anche in Germania e a suon di pubblicazioni vince la cattedra di diritto romano, sempre a Firenze. Abita, lui che non è prete, nel Convento di san Marco, dai Domenicani, accanto ai dipinti del Beato Angelico. È, e resterà, la sua casa, fino alla morte.
Fiero nemico del fascismo, nel 1939 pubblica "Principi", rivista antifascista e antirazzista. L'anno dopo gliela chiudono. Cercano più volte di chiudergli la bocca, anche con la forza e con le minacce, ma lui sguscia via…
Dopo la Guerra sente il dovere di impegnarsi per rimettere in piedi l'Italia, è deputato alla Costituente e si impegna in politica: sottosegretario al Lavoro e alla Previdenza Sociale, si dichiara sempre dalla parte dei poveri, e fa seguire i fatti alle dichiarazioni. Nel 1950 si dimette da deputato per fare il sindaco a Firenze. In tutto lo sarà per 13 anni.
Teorizza, in un suo celebre opuscolo, "L'attesa della povera gente", la costruzione di una città fatta per gli uomini, che dia a tutti casa, pane, lavoro e libertà. Dovrebbe essere normale. Lo trattano da visionario. Pensa in grande, e da Firenze guarda al mondo. Ai suoi dice sempre che "bisogna pregare avendo il mappamondo sul comodino": pace universale, fine dei blocchi - che allora erano due, e facevano sul serio, al seguito di Usa e Urss. Pare un sognatore, perché in tempi di ferro come quelli con Isaia predica che occorre trasformare le spade in vomeri, contro la guerra, contro ogni guerra…Nel 1965 va ad Hanoi, in Vietnam, e incontra Ho Chi Minh, va a Mosca, va a New York, sempre col Vangelo in tasca e sulla bocca: conosce e dice cose forti a Krusciov, Kennedy, Nasser, Ciu en Lai, Senghor, Abba Eban, Arafat, de Gaulle. Incontra anche i Papi, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI come uno di casa, e neppure con loro è remissivo…
Intanto, e soprattutto, fa il sindaco sul serio, a modo suo. Costruisce case e quartieri nuovi, se una fabbrica vuole chiudere arriva lui. Firenze a fine anni '50 ha 10.000 disoccupati, e lui si schiera con loro. Pure i suoi, che erano i democristiani, e anche certi cristiani, dicono che è matto: un ingenuo, un utopista, un frate mancato, o peggio, un sovversivo, un "bolscevico bianco". Se ne infischia, infiamma la gente, salva la famosa Pignone con l'aiuto dell'Eni di Mattei, salva la fonderia delle Cure, costruisce nuove scuole, sistema i ponti sull'Arno, la Centrale del Latte, il mercato dell'Ortofrutta…
Nel 1955, da sognatore incurabile ha convocato a Firenze tutti i sindaci del mondo. Il bello è che ne vengono tantissimi. È proprio matto: cita il suo Isaia e dice che gli unici realisti, in fondo, sono solo i profeti. Va ben oltre la politica: si appassiona a Jung e a quella che chiama "storiografia del profondo", che vale anche per i popoli e per le civiltà. Predica una nuova razionalità, che dia realtà e pace, carità, perdono, povertà volontaria e non imposta… È contagioso, quindi pericoloso. Cambiano i tempi, lui no, sempre piccolo, sempre occhialuto, sempre sicilianissimo, ma risciacquato in Arno, sempre entusiasta, sempre "che sant'uomo" e per tanti "che tormento"… Lo fanno fuori, e tanti, in tanti palazzi, non solo profani, tirano un sospiro di sollievo.
Ma i tempi cambiano: la gente riflette, i cittadini diventano esigenti e nel 1976, con la Dc all'inizio di una crisi che pare senza fine, lo richiamano in Parlamento. Accetta, soprattutto per amicizia con il suo amico Benigno Zaccagnini, un altro che la politica la vede solo e sempre come servizio verso la gente, ma la salute non lo regge più. Muore il 5 novembre 1977, di sabato, giorno della Madonna, la sua Maria di Nazaret, dipinta dal suo Beato Angelico lì, accanto alla sua cella.
In tutta la sua attività, anche negli anni più frenetici, al primo posto la fede, le sue notti in preghiera, la sua vita messa nelle mani di tutti, e divenuta impegno sociale temerario e dirompente, la sua parola capace di toccare i vertici della poesia religiosa e della provocatorietà sociale, della lirica mistica e della denuncia più infiammata dei mali del mondo intero, quel mappamondo che teneva sul comodino. Un pazzo? Un santo? Hanno avviato anche il processo di beatificazione, che però va per le lunghe: gli avvocati del diavolo in certi casi hanno gioco più facile…
Certo Giorgio La Pira è uno che ha fatto sul serio tutto quello che ha fatto. Anche in politica. Parliamo sottovoce, ma in questi tempi in cui tutti paiono recitare una parte, che nostalgia!

 

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