Pubblicato su politicadomani Num 56 - Marzo 2006

Legge 30 e mercato del lavoro: quali effetti?
Se lo chiede la Associazione Nuovi Lavori che pubblica i risultati di una ricerca

di Fabio Antonilli

L'impatto avuto dalla legge delega 30 sul mercato del lavoro italiano è l'interrogativo di fondo che ha animato la ricerca condotta dall'Associazione Nuovi Lavori (ANL) su un campione di 1000 aziende. Di questo si è discusso lo scorso 23 febbraio a Roma nella sede del CNEL (Consiglio Nazionale Economia e Lavoro).
Il primo dato consolante è che nelle imprese italiane del settore manifatturiero e del terziario il 73,2% dei contratti è di tipo standard, ossia a tempo indeterminato, full time o part time, e dunque i contratti di lavoro tradizionali costituiscono ancora una larga maggioranza.
A proposito invece di ciò che accade al di là della "cittadella", come la definiva Luciano Gallino, dall'entrata in vigore di quella che è definita impropriamente "legge Biagi", su 26% di contratti non standard solo il 9,2 è riconducibile alle modalità contrattuali flessibili introdotte dal d. lgs. 276 attuativo della delega.
Dunque tanto rumore per nulla. Una legge che non ha funzionato, quindi, né in bene né in male. La responsabilità del fallimento va proprio agli estensori della legge che, da una parte, hanno scritto norme utilizzando una pessima tecnica giuridica - tuonano i giuristi - e, dall'altra, anziché prediligere la "sistematicità" hanno preferito generare un mostro giuridico - come dice il professor Franco Liso, giuslavorista de "La Sapienza" - di ben 86 articoli sostanzialmente inefficaci e inconcludenti.
Entrando nello specifico di quel 9,2% di "atipici" per mezzo della legge 30 è possibile vedere come sostanzialmente ininfluenti siano il contratto di job sharing (0,1%) e di job on call (0,1%). Segno che gli operatori del mercato del lavoro hanno preferito orientarsi sul contratto ad essi affine, cioè il part-time, di cui le due forme di lavoro di nuova introduzione (e qui i relatori del convegno sono tutti d'accordo) sono una "superfetazione". [Prima cioè di vedere il risultato di una riforma ancora allo stato embrionale se ne concepisce un'altra, "superfetazione", uguale concezione di un feto mentre ve ne è già un altro nella matrice.]
Un po' meglio se la passa il lavoro "a progetto" (2,9%), la forma contrattuale che ha come obiettivo quello di dare certezza alle collaborazioni coordinate e continuative, che non sono in grado di rientrare nel lavoro subordinato, vincolando la prestazione del collaboratore ad un progetto o parte di esso.
A proposito delle chances che hanno gli atipici di "scavalcare" le mura ed insediarsi anche loro nella cittadella il dato è totalmente sconfortante. "Solo un lavoratore no standard su quattro - si legge nell'abstract della ricerca - sarà assunto con contratto a tempo indeterminato, mentre esiste una probabilità tendenzialmente alta, pari al 22%, che chi è flessibile rimanga tale, senza turn over di persone sui posti flessibili disponibili: il che denota la creazione nelle imprese di un enclave di flessibilità piuttosto "rigida"".
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra lavoro no standard e prospettive di impresa i numeri della ricerca dell'ANL dicono che negli ultimi tre anni le imprese, nonostante la positiva performance economica, hanno fatto grande utilizzo dei contratti atipici, soprattutto di contratti a finalità formativa e a tempo determinato. Dimostrazione questa che l'uso dei contratti atipici si sta stabilizzando. Basti pensare che, negli ultimi tre anni, ben il 43,4% delle imprese con trend positivo hanno utilizzato contratti di formazione e lavoro, apprendistato o inserimento. Inoltre hanno fatto più ricorso ai contratti a tempo indeterminato, intermittente o ripartito le aziende con performance economica positiva (36,3%) rispetto a quelle che, invece, sono in negativo (33,3%). È questo un dato che certamente fa riflettere, se si pensa che le nuove figure contrattuali furono create inizialmente per andare incontro alle aziende in difficoltà, alle prese con ristrutturazioni aziendali, con la speranza che i sacrifici di tutti fossero anche vantaggiosi per tutti. La parola d'ordine è dunque moderazione. Poichè l'auto-regolazione non è la virtù principale del libero mercato la strada più opportuna è quella della flex-security, dice Tiziano Treu, ospite del dibattito. Si tratta in pratica di realizzare una sintesi tra flessibilità e sicurezza che consenta al mercato del lavoro di dotarsi di misure di stabilizzazione e alle persone di avere una bussola di riferimento, una prospettiva, qualche certezza.

Il diritto del lavoro è stata la cittadella che, a partire dal 1945, ha accolto milioni di contadini, di braccianti, di lavoranti a giornata, di artigiani, di operai sotto padrone, e li ha trasformati in cittadini a pieno titolo, coscienti del loro ruolo in una società democratica e della dignità che spetta ad ogni persona, indipendentemente dal censo e dalla professione. (Luciano Gallino)

 

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