Pubblicato su politicadomani Num 56 - Marzo 2006

Grandi registi
La violenza "necessaria" di Cronenberg
Un film colto e raffinato, leggibile a più strati che sa raccontare una storia senza dimenticare il cinema di genere da cui proviene

di Luca Di Giovanni

"A history of violence", l'ultimo film di David Cronenberg, è stato sicuramente l'uscita più interessante di fine 2005. Il grande regista canadese, autore di alcuni tra i migliori horror degli ultimi vent'anni, con questo film ha trasportato la sua poetica estrema e paradossale in dei contesti più quotidiani, più realistici. La sua ultima opera, molto apprezzata a Cannes e osannata dalla critica, si presenta infatti come uno spaccato concreto e drammatico della provincia americana, una dura accusa al sistema del grilletto facile sempre più in voga negli Stati Uniti dell'era Bush (e non solo, putroppo…), una profonda meditazione sul mito tipicamente americano della "seconda possibilità".
L'uomo qualunque Tom Stall (che ha la faccia rassicurante di Viggo Mortensen), padre e marito modello e onesto gestore di un piccolo locale, di fronte al pericolo di una rapina a mano armata si trasforma in giustiziere freddando senza pietà i due balordi che minacciavano i clienti. Questo gesto lo porta alla ribalta della cronaca, un uomo tranquillo trasformato dai mass-media in un eroe, perfetto esempio di cittadino americano onesto e coraggioso che all'occorrenza sa imbracciare il suo fucile e farsi giustizia da solo.
Questo evento sconvolgente porrà fine alla serenità della sua famiglia, prima assediata da giornalisti e fotografi, poi turbata dal sopraggiungere di alcuni loschi personaggi (il grande Ed Harris è un "cattivo" da antologia) che sembrano saperla lunga sul passato di Tom Stall.
E' l'inizio di un incubo senza fine, che porterà il protagonista a fare i conti col suo passato, e a rivelare ai suoi familiari ignari la sua vera identità.
La trama nella seconda parte del film è quella di un noir, popolato da spietati gangster, ricco di colpi di scena ed esplosioni improvvise di violenza, ma l'ambizione di Cronenberg è molto più alta, e travalica gli schemi del cinema di genere per offrire allo spettatore una cupa parabola esistenziale, il ritratto di un uomo costretto a mentire per proteggersi dai fantasmi del suo passato, la dolente ballata di un padre che non riesce a evitare a suo figlio il peso dei propri errori (e in quest'ottica la storia parallela del ragazzo, vittima dei soprusi di un bullo al liceo, è fondamentale).
Questo incubo ad occhi aperti è narrato con un taglio astratto, quasi metafisico dal regista, che senza vezzi o compiacimenti va ben oltre il realismo, in un'operazione di svuotamento che ricorda il Lynch meno stralunato di "Una storia vera" o i Coen di "Fargo".
In effetti questa storia di ordinaria violenza che Cronenberg ci racconta di realistico ha soltanto l'impianto visivo e l'ambientazione nella desolata provincia del Midwest; la narrazione piana e fluida, senza salti temporali e la regia misuratissima di Cronenberg possono trarre in inganno lo spettatore più ingenuo. Il film infatti è leggibile a più strati, il regista canadese è un artista colto e raffinato che sa raccontare una storia senza dimenticare il cinema di genere da cui proviene: ma dietro la linearità dell'intreccio si cela una riflessione filosofica complessa, una visione chiara e disincantata della realtà da parte di un autore coraggioso che con questo film arriva alla completa maturità.
La forza del film di Cronenberg sta nella radicalità del suo pessimismo, che porta lo spettatore a interrogarsi sull'inevitabilità e sulla necessità della violenza in una società come quella americana, in cui alzare la voce sembra l'unico modo per avere ragione, in cui l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento sulla civile convivenza, in cui l'auto-conservazione arriva a giustificare qualsiasi gesto, in un terribile finale fatto di silenzio e complicità, di perdono senza redenzione che ricorda quello splendido di "Mystic River" di Clint Eastwood.

 

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