Pubblicato su politicadomani Num 56 - Marzo 2006

Un paese al bivio
Tra integralismo religioso e integrazione europea

di Alberto Foresi

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, che la vide neutrale perchè stretta fra l'incapacità di opporsi militarmente alla Germania, e il timore per la confinante potenza sovietica, la Turchia chiese fin dal 1948 l'ammissione alla Nato. Vi entrò nel 1952, dopo aver ottenuto l'appoggio statunitense grazie alla partecipazione di un suo contingente alla guerra in Corea. Da questo momento la Turchia cominciò ad usufruire dell'appoggio economico delle nazioni europee e degli Stati Uniti. Ciò le consentì una decisa politica di riarmo che la rese una delle principali potenze militari mondiali e le permise di procedere all'ammodernamento dell'agricoltura e al decollo dell'industria. Parallelamente all'ingresso nella Nato, la Turchia fu artefice di una sua personale politica estera, sottoscrivendo trattati di reciproca assistenza con Grecia e Yugoslavia (Patto Balcanico del 1953 sostituito, per volontà del maresciallo Tito, dal Patto di Alleanza firmato a Bled nel 1954) e con Iraq, Iran, Inghilterra e Pakistan (Patto di Bagdad del 1955, che, dopo la defezione dell'Iraq, prese il nome di CEN.T.O., Central Treaty Organisation, con sede ad Ankara). In pratica, all'interno della Nato la Turchia rivestiva il ruolo di avamposto contro l'espansionismo sovietico, mentre con i trattati di cui si fece promotrice cercava di ritagliarsi la funzione di stato-cerniera tra l'Europa balcanica e il Vicino e Medio Oriente. Da sottolineare anche le buone relazioni che sono sempre intercorse con lo stato di Israele, riconosciuto dal governo di Ankara già nel 1949, che rendono oggi la Turchia l'unico paese di religione islamica suo alleato. La scelta di agire sempre più in sintonia con le nazioni occidentali fu ulteriormente consolidata dalla adesione del Paese ai principali organismi europei quali il Consiglio d'Europa, l'O.E.C.E., la C.E.E. (in qualità di membro associato), l'O.S.C.E e l'attuale istanza di entrare a far parte dell'Unione Europea.
Un evento, tuttavia, sembra aver messo parzialmente in discussione questa politica filo-occidentale: l'aggressione anglo-americana contro l'Iraq è stata percepita da una parte della popolazione quale atto proditorio e ha aperto potenzialmente la strada a fazioni integraliste. È significativo che il governo turco, tradizionalmente alleato degli Stati Uniti, abbia non solo deciso di non partecipare direttamente al conflitto, ma abbia anche negato il permesso di invadere l'Iraq dai propri confini e, almeno ufficialmente, l'uso di strutture presenti nel proprio territorio per le operazioni belliche. In questa strisciante tendenza antioccidentale si spiegano taluni attentati terroristici perpetrati in Turchia contro obiettivi anglo-americani, probabilmente da gruppi terroristici di provenienza straniera o comunque sobillati dall'esterno. Di diversa natura invece è la recente uccisione di un prete cattolico italiano a Trebisonda a cui va attribuito un significato episodico.
In questo momento la Turchia si trova di fronte ad un bivio: perpetuare la tradizionale politica laica filo-occidentale o, avvicinandosi l'opinione pubblica verso posizioni di fratellanza panislamica, rischiare di diventare preda di fazioni integraliste con tutto ciò che questo comporta, non esclusa la possibilità per nulla remota di un diretto intervento militare in difesa della laicità dello Stato. In questa prospettiva l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, con suoi vantaggi, aiuterebbe la nazione a superare le tentazioni integraliste. Non solo. L'ammissione della Turchia potrebbe costituire il punto di partenza di un auspicabile allargamento dell'Unione verso le altre nazioni islamiche mediterranee, sì da costituire in futuro una coalizione, aggregante al suo interno sia l'Europa tradizionalmente intesa sia l'Africa settentrionale e il Vicino Oriente asiatico.Una situazione questa che potrebbe essere un valido argine al proliferare di movimenti integralisti antioccidentali. Si potrà obiettare che tale possibile coalizione risulterebbe divisa da differenze religiose e culturali, ma tali differenze non hanno impedito per più di mille anni all'Europa di intrattenere relazioni commerciali e proficui scambi culturali con il mondo islamico, basti pensare alla Repubblica di Venezia. Ci furono senza dubbio scontri e conflitti anche sanguinosi. L'uniformità di credo religioso non è una garanzia di pace fra i popoli e le nazioni. È da notare infatti che le cosiddette radici comuni cristiane dell'Europa non hanno impedito, in quasi duemila anni, il verificarsi di conflitti fra gli stessi cristiani, spesso anche per motivi direttamente connessi alla stessa religione, e che questi conflitti hanno causato un numero di morti enormemente superiore rispetto a tutti i caduti nelle guerre tra Cristiani e Musulmani. Se proprio vogliamo andare alla ricerca di radici comuni in grado di garantire una pacifica convivenza sovranazionale, è meglio allora riallacciarsi alle altrettanto comuni radici romane. Occorre recuperare la capacità che ebbero i nostri antenati di far convivere all'interno dello stesso organismo sia le popolazioni dell'Europa centro-settentrionale, sia quelle gravitanti intorno al bacino del Mediterraneo. Essi riuscirono nel difficile intento di far condividere gli stessi valori a popolazioni diverse per religione e cultura, riconoscendo e, anzi, salvaguardando le loro differenze.

 

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