Pubblicato su politicadomani Num 54 - Gennaio 2006

La Bolivia si è alzata in piedi
La crisi dell'ideologia del dominio
È in atto nel paese una rivoluzione democratica decolonizzatrice

di Damiano Sansosti

Povera, anzi poverissima la Bolivia, formata per il 75% da indios e il restante 25% da quell'aristocrazia criolla, di estrazione bianco-europea, che vuole l'autonomia e minaccia la secessione preferendo l'annessione al Brasile.
Evo Morales, il presidente indio chiamato a rappresentarla, può contare su Alvaro Garcia Linera. Candidato vicepresidente e sempre al fianco di Morales nella lotta al potere costituito, è uno degli analisti politici più importanti del paese. Convinto seguace di Marx, ha coinvolto la classe media e bianca del paese, restia a votare per un indigeno, a condividere la politica del Mas.
Linera è un intellettuale indigenista, formatosi all'Università autonoma del Messico. Negli anni '90 si è fatto cinque anni di carcere per essere stato a capo dell'esercito Tupaj Katari, della resistenza boliviana, in qualità di dirigente e ideologo. Allievo di Felipe Quispe, il "Mallku" (il condor), il leader indigeno più indiscusso, Linera rappresenta la parte più pragmatica e concreta del nuovo governo. Nel programma, come promesso in campagna elettorale, ci sono innanzitutto la nazionalizzazione del gas naturale e del petrolio (come fatto dal Venezuela) e l'istituzione di una nuova assemblea costituente che affranchi il paese dal ricatto delle oligarchie attualmente al potere e assicuri più rappresentatività alle popolazioni indigene, nel rispetto della "composizione etnicamente e socialmente eterogenea del paese", come sostiene il sociologo brasiliano Emir Sader sulle pagine del "Jornal do Brasil".
"Siamo in presenza di una rivoluzione democratica decolonizzatrice. La Bolivia si è alzata in piedi", ha tuonato il neoeletto vicepresidente non appena si è reso conto della vittoria. "Per la terra boliviana, in cui fino agli anni ‘50 gli indios non potevano neanche mettere piede in piazza Murillo, nel cuore di La Paz, forse è davvero arrivato il momento della libertà e della democrazia."
Come Linera, anche Evo Morales ha un passato. Nel 2002, quando l'indio si presentò candidato a presidente per la prima volta contro l'americanissimo Gonzalo Sánchez de Lozada, l'allora viceré Usa, l'ambasciatore Manuel Rocha, che governava un'ambasciata di 1800 funzionari, la più grande dell'America latina e una delle più grandi del mondo (dopo quella di Baghdad), lo definì pubblicamente "il Bin Laden andino", "un narcotrafficante", "lo strumento di Hugo Chavez e Fidel Castro".
Indigeno aymara ed ex leader dei cocaleros, i coltivatori della foglia di coca, Morales deve questa sua fama, diffusa anche presso l'opinione pubblica occidentale sapientemente ammaestrata, alla sua educazione e alla profonda conoscenza della realtà boliviana. Nella sua attività politica ha combattuto con impegno costante contro la politica liberista e classista nordamericana, contro la privatizzazione dei servizi pubblici e a favore dell'affermazione dei diritti elementari della sua gente. Nasce 46 anni fa in una comunità rurale di Oruro. Qui vede morire quattro dei suoi sei fratelli, per mancanza di cure mediche, e lavora come muratore, coltivatore di patate e trombettista. Negli anni '70 emigra con tutta la famiglia nel Chapare, l'area tropicale di Cochabamba, attratto dalle migliori condizioni di vita garantite dalle coltivazioni di coca. Nel Chapare inizia il suo impegno politico: leader sindacale cocalero, fonda l'Ipsp, Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos, dal quale nascerà il Mas, una specie di confederazione di sindacati e movimenti sociali che nel `95 si oppongono allo sradicamento forzato delle piantagioni di coca. Deputato in parlamento, candidato presidenziale, Presidente.
"Da partito cocalero siamo diventati una forza nazionale e ora abbiamo la grande opportunità di governare il paese, di governarci da soli", aveva detto pochi giorni prima delle elezioni, forte soprattutto dell'appoggio di alcuni dei principali movimenti sociali del paese: le cooperative di minatori, il movimento dei Sem Terra, i contadini "regantes" di Cochabamba che hanno combattuto la guerra dell'acqua del 2000, e parte della associazione contadina nazionale.

Se un tempo i dibattiti politici riguardavano lo sfruttamento della classe operaia, oggi si concentrano sulla proprietà e sullo sviluppo delle risorse naturali. La strada è stata tracciata da Chavez: cercare accordi vantaggiosi con le compagnie petrolifere straniere senza eccessivi clamori.
Ma Morales ha di fronte un problema diverso: la lotta al narcotraffico che negli ultimi 15 anni gli Usa hanno deciso di condurre in una zona che comprende, oltre la Bolivia, anche la Colombia, il Perù, l'Ecuador e il Paraguay. La posta in gioco è, in realtà, il controllo dell'immenso patrimonio naturale della zona. La produzione di coca fornisce occupazione per migliaia di indigeni che rivendicano la libertà di coltivare e vendere la pianta di coca senza diventare per questo strumento dei narcotrafficanti, e senza dover sottostare alla politica statunitense, sempre più meno disposta ad aiutare i campesinos boliviani a convertire le proprie colture, senza per questo dover morire di fame. "Causachun coca, Wañuchun yanquis!" (Viva la coca, yankee andatevene via!), in questo slogan, che disturba il nostro pensare di occidentali ricchi e sazi, c'è tutto il fallimento delle politiche internazionali nei confronti dei paesi più poveri. Il neo-presidente intende troncare la cooperazione con gli Stati Uniti nello sradicamento delle colture di coca, e lo fa con un'accusa pesante: "la questione delle tossicodipendenze negli Usa non è un problema della Bolivia".
Anche il Brasile ha enormi interessi in Bolivia: Petrobras controlla il 25% delle riserve di gas, concentrate nel dipartimento di Tarija, e circa il 40% degli affari agroalimentari di Santa Cruz, buona parte dei quali sono nelle mani di proprietari terrieri brasiliani. E poi c'è il problema petrolio. Linera sostiene in un intervista: "il Brasile ha certamente molti interessi in Bolivia. È uno stato potente e sicuramente cercherà di proteggerli. Con Petrobras dobbiamo essere prudenti. L'obiettivo è procedere verso una modifica delle relazioni, in modo che gli investitori stranieri diventino soci di minoranza dello stato". Linera sa bene di dover recuperare alla Bolivia gli idrocarburi, e che per far questo dovrà affrontare le multinazionali mondiali: lo ha promesso e lo deve ai boliviani. Un popolo che ha dimostrato di saper scendere nelle strade per destabilizzare un governo che non mantiene le sue promesse, a maggior ragione se questo governo è presieduto da un indigeno. "Prima gli indigeni votavano per non indigeni, perché si pensavano non in grado di gestire il paese". Ora non più. Una "rottura dell'ideologia del dominio", è così che Linera chiama la presa di coscienza del proprio potere da parte dei boliviani.
Questa situazione è talmente nuova che alcuni azzardano per il futuro previsioni catastrofiche: la ricca provincia di Santa Cruz, con le sue enormi risorse petrolifere, potrebbe separarsi dalla Bolivia e unirsi al Brasile; truppe cilene potrebbero essere schierate sulla frontiera andina; altra ipotesi è l'invasione degli Usa dalla loro nuovissima base militare in Paraguay.
Fantasie. perché Morales non è solo. Dietro di lui ci sono i movimenti autoctoni degli indios dell'Ecuador, del Perù e della Colombia, sempre più potenti. Ma, soprattutto, ci sono tutti quei governi dei paesi dell'America Latina fortemente critici delle teorie economiche ultraliberiste imposte loro dalle istituzioni internazionali dominate dagli Stati Uniti: Venezuela, Brasile, Uruguay, Argentina, la piccola Cuba di Castro, e poi forse ancora, a breve, Cile e Messico.

 

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