Pubblicato su Politica Domani Num 52 - Novembre 2005

Il commento
Tutte le ragioni del malessere
La ragione non sta mai tutta da una parte. Dietro lo sciopero dei lavoratori dello spettacolo non ci sono solo i tagli della finanziaria

di Chiara Comerci

Molte voci si sono levate durante lo sciopero dei lavoratori dello spettacolo il 14 ottobre scorso: quelle che hanno fatto più rumore appartenevano ai big intervenuti alla manifestazione. Occorre però citare anche quelle che dissentivano dal coro.
Cerchiamo di capire i diversi punti di vista.
La protesta dei manifestanti è per l'eccessivo ammontare dei tagli. Questi riguardano non solo il Fondo Unico dello Spettacolo (FUS), ma anche i finanziamenti finora affluiti dalle quote del Lotto destinate al settore e dai fondi che gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) stanziano per gli eventi culturali. L'indignazione per i tagli è più che lecita. Nel settore dello spettacolo non ci sono infatti soltanto le star del cinema o i grandi direttori d'orchestra: moltissimi sono quelli che lavorano nell'ombra affinché tutto lo spettacolo possa funzionare. Troupe di ripresa, elettricisti, tecnici del suono e delle luci, montatori, segretari di edizione, responsabili di ufficio stampa, agenzie di servizi che affiancano le produzioni, ecc..., sono composte da lavoratori comuni, con un salario molto lontano dalle paghe dei VIP. Per di più, il lavoro è saltuario perché legato alla realizzazione dell'evento in sé, sia esso una produzione cinematografica, un concerto dal vivo, o un balletto. Tagliare fondi a questo settore equivale, quindi, a mettere in pericolo molti posti di lavoro.
Si aggiunga poi il problema della cattiva amministrazione dei fondi erogati e l'esosità delle tasse dovute per le prestazioni degli artisti (vedi Politica Domani n°48/49, Giugno/ Luglio 2005), e la situazione delle condizioni di lavoro diventa inaccettabile. Chi ha scioperato chiedeva, quindi, oltre che una riduzione dei tagli, anche una migliore organizzazione del FUS.
Un caso a parte è quello di Franco Zeffirelli. In un'intervista rilasciata a un quotidiano nazionale, il regista ha chiesto la soppressione delle tasse sui biglietti d'ingresso (con le quali lo Stato finanzia il FUS) in modo che gli esercenti possano investire nella promozione dello spettacolo e della cultura. Secondo Zeffirelli il Governo sarebbe stato fin troppo indulgente verso i sostenitori del mecenatismo di stato.
Da parte del Governo c'è stata qualche timida reazione allo sciopero: il ministro Buttiglione sembra abbia minacciato le sue dimissioni se i tagli non saranno rivisti. Per conoscere come la pensa Palazzo Chigi vale la pena citare, dal sito di Forza Italia "Ragion Politica" l'articolo di Elena Siri "Lo spettacolo drogato dalle sovvenzioni pubbliche". L'attacco frontale è contro la politica delle sovvenzioni statali. Molto meglio sarebbe - sostiene la Siri - stimolare la privatizzazione degli spazi e inserire un meccanismo di controllo dei progetti artistici da parte dello Stato, così da garantirne la qualità. Secondo la giornalista, la sovvenzione economica garantita dallo Stato che oggi caratterizza lo spettacolo, spinge i lavoratori del settore ad adagiarsi sugli allori di un finanziamento sicuro e a trascurare la qualità. Mentre ha certamente fondamento la denuncia di un meccanismo malato che gonfia i preventivi (la colpa non è del sistema, ma dell'uomo) è però anche vero che il modus operandi suggerito dalla giornalista farebbe sì che tipi di spettacolo meno gettonati sparissero senza lasciare traccia. E penso in particolare all'opera lirica, che sta vivendo un periodo di crisi e che, per inciso, è la forma di spettacolo più costosa (e quella che ottiene più fondi dal FUS).
Il sistema proposto in questo intervento mira a trasferire alla cultura i metodi e le regole dell'impresa con almeno tre aspetti negativi. Gli inevitabili rischi collegati all'investimento. La perdita di autonomia, come conseguenza delle attuali spinte ad accentrare in poche mani l'industria dello spettacolo - cosa che è già accaduta per l'informazione, l'editoria e i media -. E, infine, il decadimento. Perché la qualità del prodotto non sarebbe affatto 'automatica': quanti imprenditori resisterebbero a produrre buoni spettacoli di cultura per pochi, quando più facilmente e con molto maggiori guadagni ne potrebbero fare altri, di cultura scarsa o nulla, massificandoli?
Vero è che il teatro d'opera è nato proprio come un audace progetto d'impresa; e che, con l'avvento dei teatri pubblici (il primo fu a Venezia nel 1637), gli impresari si assumevano tutti gli oneri della produzione dello spettacolo, rischiando di tasca propria gli alti costi di allestimento. Avevano visto giusto, il genere si diffuse a macchia d'olio e si perfezionò nei secoli successivi. Togliere ora, però, la sicurezza economica finalmente raggiunta all'Opera equivarrebbe a rinnegare la dignità che questa è venuta acquistando nei secoli. Per non parlare del valore che l'opera rappresenta per la cultura nazionale, essendo essa un'invenzione tutta italiana.
Naturalmente ciò vale anche per tutte le altre forme di spettacolo, nessuna delle quali dovrebbe essere lasciata languire nella situazione di incertezza e persino di paralisi in cui spesso si trova. Non tanto per mancanza di fondi - o per lo meno non solo per questo - ma per la cattiva gestione che se ne fa.

 

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Num 52 Novembre 2005 | politicadomani.it