Pubblicato su Politica Domani Num 52 - Novembre 2005

A 30 anni dalla morte
Pasolini, una vita "contro"
Personaggio scomodo, usava le parole per colpire l'ipocrisia di una società borghese che si stava affermando "come modo di essere"

di Fabio Antonilli

Poeta, scrittore, regista. Una mente lucida e distaccata nell'osservare la realtà. Una voce fuori dal coro. Un intellettuale critico e mai accondiscendente verso qualunque forma di potere. Tutto ciò era Pier Paolo Pasolini.
Bolognese d'origine e romano d'adozione visse il passaggio dall'Italia rurale a quella industriale, dall'Italia fascista a quella democratica. Di quest'epoca di trasformazioni Pasolini raccontò i pregi e i difetti, il bello e il brutto, il narrabile e l'inenarrabile. Rigorosamente, con l'occhio di chi non perde mai il contatto con la realtà. Le sue opere, tutte, sono infatti prodotto di un rapporto costante con la dura realtà di tutti i giorni, il lavoro, l'emarginazione sociale, l'incipiente affermazione della borghesia "come modo di essere". Dichiaratamente marxista, ma non certamente una mente "al servizio" del Partito Comunista, Pasolini era convinto che il capitalismo portasse alla dissoluzione e alla fine di tutto ciò che di buono, di vero era in terra. Nel comunismo egli credeva, al contrario, con la forza della fede, una fede che si realizzava in istinto di conservazione e volontà di sopravvivere. Da qui il suo amore per i ceti popolari e i luoghi dell'emarginazione. "Le borgate, volute dai fascisti, e consacrate dai democristiani sono dei veri e propri campi di concentramento", scriveva nel 1960. La marginalità gergale, morale (delle borgate romane come delle province meridionali), per lui, era una marginalità "che travalicava i confini stessi della nozione marxista di proletariato", racconta Enzo Siciliano. E così anch'egli, perché forestiero alla ricerca di rapporti umani, perché omosessuale, e molto sensibile alla realtà che lo circondava, e perché le sue opere - cinematografiche e non - furono spesso nel mirino della censura "borghese", si sentiva, nel suo immaginario di artista, un emarginato.
Nel '68, in piena contestazione studentesca, Pasolini spiazzò tutti con una poesia apparsa sull'Espresso alcuni giorni dopo gli scontri tra studenti e polizia a Valle Giulia, sede della facoltà di Architettura di Roma. Chi si aspettava che egli si schierasse dalla parte degli studenti si dovette ricredere. "Adesso i giornalisti di tutto il mondo - scriveva Pasolini - vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. [..] Quando ieri a valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti , io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri". Parole dure, scagliate contro gli stereotipi del comunismo "da salotto", parole che elevavano i poliziotti da "servi del potere", e dunque della borghesia, a "figli del proletariato". Come in realtà erano, e - se vogliamo - sono tuttora.
Dunque un personaggio scomodo, uno che sapeva come usare le parole per colpire in maniera spregiudicata le istituzioni della società borghese.
Dal 1960 fino al 1975, anno della sua morte, curò una rubrica in cui rispondeva alle lettere dei lettori e dove non risparmiò critiche a nessuno. Prima sul giornale Vie nuove, poi su Il Tempo, e per finire sul Corriere della sera. Fu così anche nell'articolo dal titolo "Il romanzo delle stragi", comparso sul Corriere esattamente un anno prima della sua morte. Qui - con gran coraggio e grazie alla sua provocatoria indipendenza -dichiarò di sapere tutto sulla strategia della tensione, i tentativi dei golpe falliti, la strage di piazza Fontana a Milano, le altre stragi, e la collusione tra la CIA e i neo-fascisti in funzione anti-comunista. Scrisse di sapere ("Io so…") i nomi dei mandanti, dei politici, dei terroristi che erano dietro quel clima di guerra civile che si viveva in Italia in quegli anni. E da sempre gli interrogativi sul suo tragico epilogo sono legati a quel suo solenne atto d'accusa contro il sistema.

 

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