Pubblicato su Politica Domani Num 48/49 - Giu/Lug 2005

Calcio professionisti
La vergogna di un derby
Andare allo stadio per sostenere con forza la propria squadra che rischia la retrocessione e accorgersi di quanto poco valga tutto questo entusiasmo

di Mauro Lodadio

Serviva un'ulteriore prova. A quelli che credono alle parole di Moggi o di Galliani. A quelli che ascoltano le baruffe da Biscardi. A quelli che credono che il calcio non sia malato. Urgeva l'ennesima dimostrazione. Di un calcio fatto di televisioni, di soldi e di accordi. Avevamo provato a parlarne nel numero passato. Avevamo raffigurato il pianeta calcio vittima del business. Avevamo salvato chi ci crede veramente a questo sport, i tifosi.
Le coreografie delle due curve di Roma nel derby capitolino raccontavano il clima caratteristico che si respira in città una settimana prima della gara. "Ve mannamo in B" recitava la nord bianco-azzurra; "Si moro e poi rinasco, prego Iddio de rinasce a Roma mia", rispondeva la sud giallo-rossa. Questo è il derby di Roma. E chi non lo vive non può capire. Chi lo ha vissuto nella giornata di ritorno, non ha capito.
Ha stentato a credere agli accordi in campo tra le due squadre nemiche. Ha strabuzzato gli occhi davanti al clima di totale pacatezza espressa dai giocatori sul terreno di gioco. Cosa c'era di vero in quella gara? Nulla. Solo la paura di perdere e di retrocedere. Mi viene in mente un'altra partita. Quella che ha segnato le sorti della nostra nazionale nell'ultimo campionato europeo. L'Italia riuscì a vincere, ma il pareggio di Svezia e Danimarca per 2-2 ci condannò matematicamente. I team nord-europei, invece, si qualificarono per un complicato gioco di numeri. Un pareggio cercato, organizzato, costruito nei minimi dettagli. E, al contrario del derby romano, in apparenza sudato.
Nel bel mezzo di questi episodi, c'è la sconfitta della Rai. Quella rimediata nel mese di maggio riguardo ai diritti televisivi per il mondiale di calcio 2006 che si terrà in Germania. La Rai non trasmetterà tutte le partite come ci ha abituato a fare. La Sky di Murdoch ha avuto il sopravvento. Sono stati i soldi ed un'offerta maggiore a relegare nel ruolo di outsider il canale nazionale italiano. Alla Rai sono state donate solo le briciole: le dirette di Totti e compagni.
La parabola discendente del calcio nostrano si riassume in questi tre avvenimenti. Ed è da qui che deve partire il nostro ragionamento. Siamo di fronte ad un triangolo: televisioni-soldi-società. Per televisioni si intendono i contratti maturati con Sky, gli anticipi pomeridiani, i posticipi serali; per soldi si intendono le vittorie del merchandising, il parco giocatori, gli sponsor e i proprietari; per società si intendono i procuratori, il rapporto con gli arbitri e con le Federazioni, il clima politico che si respira nel Palazzo. La vittoria prescinde dalla fusione di questi parametri. Se manca un tassello, non si instaura quel circolo che determina il raggiungimento dell'obiettivo finale.
Nessuno in Italia ha pari dignità. Più si è potenti, più si vince. Più si hanno soldi, più si ha visibilità. Più si rema contro, più si vive nell'isolamento. Prendiamo l'esempio dell'Inter. La società di Moratti spende centinaia di miliardi delle vecchie lire ogni anno per costruire una squadra vincente. Cos'è che impedisce a questa squadra la vittoria? Sembra che Moratti non sia visto di buon occhio al Palazzo. Ora poniamo il team nerazzurro accanto a quello bianconero di Moggi e degli Agnelli. Nessuna differenza sulla carta. Eppure alla fine dell'anno i punti di differenza in classifica sono tanti. Sorge un'altra domanda. Perché negli affannosi dopo-gara, gli episodi favorevoli di presunti errori arbitrali avvantaggiano sempre le solite squadre? Juve e Milan hanno dalla loro parte il presidente della Lega Calcio, il vecchio motore dell'economia italiano, la proprietà della Gea (società di procuratori che guidano la maggior parte dei calciatori della Serie A), il Presidente del Consiglio. La realtà sembra prendere una brutta piega. Sconcerta.
Nessuno vuole credere ad un calcio truccato, a scudetti organizzati e partite guidate dalle scommesse. Se Moggi e Galliani vengono fischiati "fuori casa", ci deve essere un motivo. Il calcio ha capito che le dichiarazioni fuori dal campo sono quelle che nuocciono di più. Più di una sconfitta. Più di un derby perso al novantesimo.
Qualcuno, però, deve pur rispondere dei propri errori. Ma non incolpate la parte bella di questo sport. Coloro che contribuiscono a farlo crescere. Quei tifosi che farebbero di tutto per la propria squadra del cuore. Nel bene e nel male.

 

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