Pubblicato su Politica Domani Num 48/49 - Giu/Lug 2005

Continua (e si conclude) su questo numero il nostro viaggio attraverso i secoli in compagnia dell'olivo. Un'avventura affascinante che ha avuto per protagonista l'olio, frutto prezioso di una pianta densa di significati e di valori simbolici
L'olivo nella cultura tardo medievale
Suggestioni letterarie e divulgazione scientifica

di Alberto Foresi

Dante Alighieri
Anche il poeta fiorentino, al contempo padre e vertice della nostra poesia, non si sottrae alla suggestione dell'albero dell'olivo. Nella Divina Commedia, la sua opera principale, vi sono infatti tre riferimenti alla pianta. Nel Purgatorio troviamo:
"E come a messaggier che porta olivo
tragge la gente a udir novelle" (Pg II, 70-71),
testimonianza dell'antica usanza, attestata anche nell'Eneide di Virgilio, immaginaria guida di Dante nella Commedia e suo ideale maestro nell'arte poetica, di mandare i messaggeri con rami d'olivo in segno di pace o per annunciare una vittoria.
Nel Paradiso, in occasione dell'incontro con Pier Damiani, il poeta fa dire al Santo :
"...Quivi
al servigio di Dio mi fe' sí fermo,
che pur con cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli, ..." (Pd XXI, 113-116).
Egli, nel descrivere i suoi digiuni, sottolinea il fatto di mangiare cibi conditi solo con olio, intendendo così definire un'alimentazione povera e frugale.
Nella Divina Commedia troviamo il più interessante riferimento all'olivo nel Paradiso terrestre, quando viene rappresentata l'apparizione di Beatrice a Dante. Ella infatti viene così descritta:
"sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve..." (Pg XXX, 31-32).
La donna amata nella vita terrena dal poeta, raffigurazione qui della sapienza teologica, è dunque coronata con una ghirlanda di ramoscelli d'olivo, non solo da intendersi quale tradizionale simbolo di pace ma, in questo caso, probabile riferimento alle fronde d'olivo in quanto albero sacro a Minerva, la dea della saggezza, come già interpretarono i commentatori medievali. Beatrice, che rappresenta la teologia, sarebbe pertanto ornata anche dalla filosofia, conformemente a quell'ideale di conoscenza perseguibile con l'incontro di sapere sacro e sapere profano, sostenuto da San Tommaso e da Dante ampiamente abbracciato.

Pietro de Crescenzi
É del Trecento il trattato di agronomia "Liber ruralium commodorum", del bolognese Pietro de Crescenzi, che fu giudice al seguito di vari podestà in numerose città dell'Italia settentrionale. Conclusa la sua carriera giudiziaria, ormai anziano, si ritirò in un suo podere della campagna bolognese ove si dedicò, agli inizi del 1300, alla stesura in latino di questo trattato che ebbe subito grande divulgazione al punto da essere ben presto tradotto in volgare italiano. L'opera ha carattere enciclopedico e travalica i limiti consueti di un trattato di agronomia. Vi è, infatti, la descrizione botanica delle varie specie, naturali o coltivate, l'indicazione delle proprietà terapeutiche di alcune di esse, si insegna la preparazione di farmaci e vi si trovano anche le tecniche di conservazione e trasformazione degli alimenti. Una simile vastità di tematiche, che ha lo scopo di armonizzare e diffondere le conoscenze scientifiche del tempo, più che sull'esperienza diretta dell'autore poggia sull'erudita elaborazione delle opere di cui il Crescenzi aveva conoscenza: dai trattati di agronomia romana, soprattutto di Palladio, alle contemporanee teorie formulate negli studi medici di Bologna e di Salerno. Distante dal rigore scientifico e dalla concretezza dei trattati romani, formulati sulla base dell'esperienza diretta degli autori, l'opera del Crescenzi si presenta quale prodotto del pensiero scolastico e aristotelico. Essa appare infatti più un esercizio filosofico di logica deduttiva che un effettivo studio naturalistico. Nonostante questi limiti intrinseci alla impostazione stessa dell'opera, essa tuttavia riscosse un notevole successo in Italia ed all'estero in quanto rispondeva alla moda culturale dominante all'epoca.

 

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