Pubblicato su Politica Domani Num 48/49 - Giu/Lug 2005

Dietro il silenzio dei media
Cecenia, quando i crimini non fanno notizia
In una guerra dimenticata e resa asettica da cifre, le condanne della Corte Europea dei Diritti Umani fanno emergere una realtà fatta di persone e fatti. Ma è solo la punta di un iceberg

di Carlo Gubitosa

La morte di Aslan Maskhadov, l'ultimo presidente della "Cecenia libera" nata dalle ceneri della guerra 1994/96, è stata un duro colpo per tutte le organizzazioni e i movimenti della società civile che credono ancora in un possibile processo di pace. Il danno è stato doppio: con la perdita di Maskhadov, infatti, si è perso l'ultimo interlocutore ceceno in grado di offrire al tempo stesso credibilità istituzionale e sostegno popolare, e contemporaneamente la "notizia" dell'eliminazione dell'ex-presidente ha gettato un velo di silenzio sulle pesanti condanne per violazioni dei diritti umani inflitte alla Federazione Russa dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo.
Che cosa ci aspettiamo dai nostri media quando una delle più grandi potenze mondiali viene condannata per palesi violazioni dei diritti umani, bombardamenti su colonne di profughi in fuga ed esecuzioni sommarie di civili? Non necessariamente una prima pagina o un'apertura di telegiornale, ma almeno due righe negli esteri, un trafiletto, una segnalazione. E invece nulla. Le gravissime condanne inflitte dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo (CEDU ndr) alla Russia il 24 febbraio scorso non sono state rilevanti per l'agenda dell'informazione globalizzata, che ha preferito glissare sulle sentenze ottenute grazie alla determinazione e al coraggio dei ceceni che per quattro lunghi anni hanno continuato a cercare giustizia per la morte dei loro cari, esponendosi al rischio di gravi ritorsioni.
In questo lungo e laborioso percorso di giustizia, i ceceni che si sono rivolti alla Corte Europea sono stati aiutati dagli avvocati dell'organizzazione russa "Memorial", che subito dopo i bombardamenti a tappeto scatenati sulla Cecenia nel Natale 1999, hanno cominciato a raccogliere testimonianze e documenti sulle gravissime violazioni dei diritti umani compiute durante le azioni militari. Lo sforzo di questi quattro anni è stato ripagato con una serie di sentenze che hanno un indubbio valore legale, ma anche un enorme valore storico e politico: dal 24 febbraio nessuno potrà più ancora sostenere in buona fede che in Cecenia è stata realizzata una "lotta al terrorismo", a meno che non ci sia qualcuno talmente folle da pensare che questa definizione possa essere applicata a bombardamenti su civili inermi.
I fatti accertati con le sentenze della Corte Europea (disponibili online all'indirizzo www.echr.coe.int) non hanno bisogno di commenti: il 4 febbraio 2000 Zara Adamovna Isayeva perde un figlio e tre nipoti durante il bombardamento indiscriminato del villaggio di Katyr-Yurt, popolato da 25 mila persone tra residenti e rifugiati da altre zone della Cecenia. Dopo essersi nascosti nella cantina, Zara e i suoi familiari cercano di fuggire dal villaggio approfittando di un momento di relativa calma, e si imbarcano in un minibus Gazel che viene colpito e bombardato sulla Ordzhonikidze road, garantita come una sicura via di fuga dai militari russi, attorno alle tre e mezza del pomeriggio. Zelimkhan Isayev, il figlio ventitreenne di Zara, muore immediatamente sotto il fuoco degli aerei, assieme alle tre nipoti Zarema Batayeva (15 anni), Kheda Batayeva (13 anni) and Marem Batayeva (6 anni). Un altro nipote di Zara, Zaur Batayev, viene ferito rimanendo disabile a causa dei colpi ricevuti. In totale, quel giorno vengono uccise più di 150 persone del villaggio, civili inermi e disarmati che cercavano solamente di fuggire dalla guerra e sono stati colpiti con bombe di alto tonnellaggio e lanciarazzi.
Tutto questo non è la fantasia di un estremista, ma un episodio fedelmente ricostruito da un tribunale internazionale e confermato dal governo della Federazione Russa, che ha rivendicato il bombardamento come legittimo per contrastare i gruppi ribelli presenti nella zona.
Magomed Akhmetovich Khashiyev e Roza Aribovna Akayeva sono fuggiti da Grozny nell'autunno del 1999, lasciando in città un gruppo di parenti che non hanno voluto abbandonare le loro case. Nel dicembre dello stesso anno, mentre l'Italia approvava accordi di cooperazione militare con la Russia, scattano le operazioni dell'esercito Federale per riprendere il controllo di Grozny, e alla fine di gennaio Magomed e Roza vengono avvisati che alcuni dei loro parenti sono stati uccisi. Rientrando a Grozny per raccogliere informazioni, Magomed trova al numero 107 di Neftyanaya Street i cadaveri di sua sorella Lidiya, di suo nipote Anzor non ancora diciottenne e del fratello di Roza, Adlan, tutti sfigurati da colpi di pistola, con ossa rotte, denti saltati e evidenti tracce di tortura. A febbraio Magomed, in un successivo sopralluogo a Grozny scopre i cadaveri di Rizvan, l'altro figlio di Lidiya, e Khamid, fratello di Magomed, entrambi mutilati e maciullati per i colpi ricevuti. Anche Magomed e Roza hanno scelto di combattere con le armi della legalità anziché unirsi ai gruppi ribelli, e dopo anni di attesa e speranza la Corte Europea per i Diritti Umani ha chiesto giustizia alla Federazione Russa anche per questo episodio.
Medka Chuchuyevna Isayeva, Zina Abdulayevna Yusupova e Libkan Bazayeva, abitanti di Grozny, hanno denunciato alla Corte Europea un altro bombardamento indiscriminato su civili compiuto dagli aerei dell'esercito federale il 29 ottobre '99, nei pressi della capitale cecena. Due figli di Medka e sua cognata hanno perso la vita nell'attacco, e Medka stessa è stata ferita assieme a Zina. Libkan, invece, è stata più fortunata: le bombe hanno distrutto "solamente" la sua macchina e i pochi averi messi insieme alla rinfusa per fuggire dalla Cecenia in fiamme. In quei giorni la radio e la televisione avevano annunciato l'apertura di un "corridoio umanitario", che si è rivelato un vicolo cieco di morte per molti civili. Il giorno precedente all'attacco, Medka aveva già cercato di entrare in Inguscezia con i suoi figli per cercare rifugio, ma i soldati russi li avevano rimandati indietro al confine sostenendo che il "corridoio" sarebbe stato aperto solo il giorno successivo. Il giorno dopo, al posto di blocco "Kavkaz-1" si forma una coda di veicoli lunga almeno un chilometro, e a chi chiede spiegazioni i militari rispondono che sono in attesa di ordini superiori per aprire il passaggio ai civili. Più tardi la coda di macchine continua a crescere, e un migliaio di veicoli attende al posto di blocco che qualcuno apra le porte alla salvezza. A metà mattina un ufficiale avverte il convoglio che anche quel giorno il "corridoio" sarebbe rimasto chiuso, e ordina ai veicoli di fare ritorno a Grozny. Mentre le macchine ritornano indietro formando una coda di 12 chilometri, nel cielo sereno che sovrasta la Cecenia compaiono due bombardieri, che iniziano a sganciare missili sui civili in fuga. Tra i veicoli colpiti ci sono anche quelli del comitato ceceno della Croce Rossa, che aveva chiuso i suoi uffici per ragioni di sicurezza cercando riparo in Inguscezia senza poter prevedere che in quella fuga sarebbero morti due operatori e un terzo sarebbe stato ferito. Nel convoglio erano presenti anche due giornalisti russi, che stavano filmando gli effetti delle prime esplosioni quando sono stati raggiunti da un altro missile.
Le sentenze della CEDU hanno avuto il merito di trasformare una guerra dimenticata e spersonalizzata da cifre asettiche in un elenco di nomi e cognomi, di volti, di persone e di storie che sono la punta dell'iceberg di tutto il marcio che si nasconde dietro le nobili dichiarazioni di lotta al terrorismo che il governo della Federazione Russa può permettersi di fare anche grazie ai "paesi guardaspalle" che chiudono gli occhi di fronte a conclamati crimini di guerra, e tra questi, purtroppo, c'è anche l'Italia, un paese dove governi di ogni colore e orientamento hanno sistematicamente ignorato la questione cecena, che solleva il nodo fondamentale della geopolitica mondiale dei nostri tempi: che cosa si può fare per difendere il diritto alla vita di un popolo quando è impossibile esportare democrazia a suon di bombe?

[Si ringrazia la Redazione di "Volontari per lo Sviluppo" per la pubblicazione di questo articolo]

 

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