Pubblicato su Politica Domani Num 47 - Maggio 2005

Diritti riconosciuti
Il problema del ritorno dei Palestinesi
Oltre all'approvvigionamento idrico e al problema di Gerusalemme, questioni che, per quanto complesse, sono in qualche modo risolvibili, sulla via della pace che si sta faticosamente costruendo in Medioriente, rimane l'ostacolo apparentemente insormontabile del rientro dei profughi palestinesi.
Il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi è riconosciuto dalla Risoluzione Onu n. 194 dell'11 Dicembre 1948 (comma 11) e da tutti i Paesi che dell'Onu fanno parte, inclusa Israele. Eppure questo diritto è stato sempre disatteso e ostacolato da Israele in tutti i modi possibili.

A cura di Maria Mezzina


La politica
Una politica che si oppone alla pace
Mentre Israele si espande, gli arabi fuggono e quelli che rimangono non sono più cittadini

Mentre migliaia di arabi palestinesi affollano i campi profughi di Egitto, Giordania, Siria e Libano, accampati senza dignità e in condizioni penose, nel 1951 in Israele viene promulgata le "legge del ritorno": ogni ebreo, con una semplice domanda, può ottenere la nazionalità israeliana ed acquisire il diritto di risiedere in Israele. Entrano così in Palestina oltre 700mila ebrei, una immigrazione destinata a continuare gli anni successivi con oltre 70mila unità all'anno.
Intanto l'emigrazione degli arabi continua senza soste. Minacce, confische di terreni e acquisto delle loro proprietà - spesso sotto minaccia -, porta il numero dei profughi palestinesi ad oltre 900mila. Dove gli arabi si ritirano, subentrano gli israeliani e così anche Gerusalemme, una volta a maggioranza araba, si popola di ebrei.
La politica di espansione territoriale ebraica continua in tutte le forme: militare, amministrativa e coloniale. I raid militari culminano nel 1967 con l'occupazione della striscia di gran parte del territorio assegnato dall'Onu agli arabi. L'opzione militare contro i palestinesi continua ad essere una minaccia, ma in realtà è ora poco praticabile. Le opzioni amministrative e la politica di interventi di tipo coloniale sono invece diffusamente e intensamente praticate. La presenza degli arabi viene scoraggiata e di fatto impedita con norme amministrative discriminatorie e vessatorie e con distinzioni fatte su base etnica e razziale. "Israele - scrive Edward Said - è l'unico Stato del mondo a non essere lo Stato dei suoi cittadini effettivi, ma solo del popolo ebraico, il quale ha quindi diritti che i non ebrei non hanno. Prima del 1948 gli ebrei possedevano appena il 6 per cento del territorio, ora il 93 per cento dello Stato ebraico è definito terra ebraica e questo significa che nessun non ebreo è autorizzato a prenderla in affitto, venderla o comprarla."* Conseguenza di queste norme sono la negazione e le attese, fino anche a venti anni, di permessi e documenti che permetterebbero agli arabi di acquistare e costruire proprietà, e di gestire esercizi e servizi.
Intanto continua la progressiva e costante occupazione di porzioni di territorio arabo con la costruzione di popolosi insediamenti di coloni israeliani. A difesa degli insediamenti vengono impiegate truppe dell'esercito israeliano e per gli spostamenti dei coloni sono stati costruiti passaggi privilegiati, anch'essi difesi dai soldati israeliani, che sono interdetti però agli arabi palestinesi. Il risultato è una drammatica limitazione degli spostamenti dei palestinesi sulla loro stessa terra.
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* Edward W. Said, "La convivenza necessaria", I libri di Internazionale, 1999.

 

La storia
Le radici del problema del ritorno
Gli ostacoli che si oppongono al diritto al ritorno dei profughi palestinesi

Le ragioni per cui il problema del diritto al ritorno dei palestinesi è quello di più difficile soluzione, vanno ricercate nei motivi più profondi di questa guerra, che vede l'uno contro l'altro due popoli i quali rivendicano, nella medesima terra, il loro diritto all'esistenza. I Palestinesi per ragioni storiche e di diritto internazionale, gli Israeliani, "In virtù dei diritti naturali e storici del popolo ebraico, e in forza della risoluzione dell'Assemblea generale dell'ONU", come disse solennemente il 14 maggio 1948 Ben Gurion all'atto della proclamazione dello Stato Ebraico. Ragioni, quelle israeliane, che hanno trovato spazio, in realtà, nella cattiva coscienza dei popoli occidentali e che si fondano sulla volontà (lodevole) di risarcire in qualche modo il popolo ebraico del sacrificio di sei milioni di ebrei che si è orribilmente consumato nella seconda guerra mondiale, e sulla incapacità (deprecabile) di trovare una soluzione che non sacrificasse un altro popolo, quello arabo-palestinese, evitando così innumerevoli sofferenze e altri disastri.
Duemila anni di attesa per avere, finalmente, un piccolo Stato proprio, riconosciuto dalla comunità internazionale esattamente là nella "terra promessa" da cui ripetutamente nel corso dei secoli loro, gli ebrei, erano stati cacciati. Troppo piccolo e troppo debole, però, e per questo bisognoso di essere ampliato e fortificato.
Venti anni dopo la creazione del moderno Stato Ebraico, nel 1967, la guerra dei sei giorni, con la definitiva conquista della striscia di Gaza e della Cisgiordania, segnò il punto di arrivo di una politica di successive espansioni iniziate da tempo.
Nonostante le reiterate condanne internazionali dell'invasione, si è ora consolidata una situazione di fatto che è il risultato di un'abile, astuta e lungimirante politica sostenuta da tutti i governi israeliani. Una politica fatta ad esclusivo vantaggio dello Stato Ebraico e a danno della popolazione araba autoctona.
Un po' di storia e alcune cifre.
Risale al 1882 la prima grande ondata migratoria di ebrei in Palestina, la prima Aliyah, "salita" (1882-1891). In 25.000 giungono dalla Russia per sfuggire alla violenza dei pogrom, dalla Romania e dallo Yemen. Il rapporto fra arabi ed ebrei, che agli inizi del 1800 era di 40 a 1, in seguito alla nascita del movimento sionista (1897) e ai massicci trasferimenti ebraici diventa, nel 1920, di 10 a 1, per poi passare nel 1947 alla proporzione di 2 a 1 (1.237.000 arabi e 608.000 ebrei).
La divisione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, decisa dall'Onu nel 1947, prevedeva per lo Stato Ebraico un territorio a fortissima minoranza araba: 500mila ebrei e 330mila arabi. Una situazione paradossale che occorreva correggere in fretta, prima della proclamazione dello Stato indipendente di Israele. Il risultato di questa "correzione" fu una massiccia immigrazione di ebrei in Palestina e una contemporanea massiccia emigrazione di arabi.
"Terrorismo" era la parola d'ordine da parte di ebrei e di arabi palestinesi. Il culmine si ebbe con l'esodo (in un solo mese) di 250mila arabi palestinesi in seguito all'eccidio, avvenuto nella notte fra il 9 e il 10 aprile del 1948 nel villaggio di Deir Yassin, di 250 persone comprese donne e bambini. L'eccidio venne ufficialmente condannato da Ben Gurion, ma i gruppi dell'Irgun e dello Stern, le organizzazioni armate irregolari israeliane responsabili dell'eccidio, sarebbero stati poco dopo assorbiti insieme all'Haganà nell'esercito regolare del nuovo Stato.
Paura, quindi, provocata da terrorismo e guerriglia, furono le motivazioni dell'esodo.

 

La speranza
Un accordo possibile, nonostante tutto
Dagli accordi di Ginevra una soluzione credibile

Il problema del ritorno sembra così senza soluzione. Se infatti la prima condizione per il raggiungimento della pace è il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, questo ritorno presenta indubbie difficoltà a causa delle condizioni della terra che essi reclamano come propria. Condizioni che sono profondamente mutate. Questa difficoltà va ad aggiungersi ad un altro dato di fatto: nei campi profughi sono nate nuove generazioni e il numero di coloro che hanno titolo a tornare su una terra che è stata una volta dei loro padri e dei loro nonni ha raggiunto ormai i 4 milioni.
Così, se da un lato il diritto al rientro dei profughi è riconosciuto dal diritto internazionale ed è ufficialmente sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite - alla quale Israele, in quanto Stato membro dell'Onu, non si è mai ufficialmente opposta -, l'effettivo rientro diventa di fatto impraticabile. Israele sostiene che non hanno diritto al rientro coloro che sono "espatriati volontariamente" e su questo avverbio e sul significato di "espatrio" si giocherà il futuro di molti palestinesi e probabilmente il futuro dell'intero processo di pace.
L'enormità del numero di profughi, la contrazione del territorio palestinese, la totale mancanza di infrastrutture, messe a terra da oltre cinquant'anni di guerra e guerriglia e sistematicamente distrutte dall'intervento dei bulldozer israeliani, un'economia quasi inesistente, rendono di fatto impossibile l'applicazione del comma 11 della risoluzione Onu 194.
Ci hanno provato a Ginevra a superare questa difficoltà confidando, come dice Monique Chemillier-Gandreau, "sulla dinamica del tempo e su due incognite aritmetiche."* Gli accordi di Ginevra (art. 7 paragrafo 4¼) prevedono quattro modi per risolvere il problema dei profughi palestinesi: 1. Ritorno in Palestina (cioè nel territorio palestinese come previsto dall'accordo); 2. Ritorno in Israele; 3. permanenza nel paese in cui si è trovato rifugio; 4. Accoglienza in un paese terzo, disposto a ricevere un certo numero di palestinesi.
La soluzione al problema dipenderà da quanti profughi palestinesi sceglieranno la seconda ipotesi: il ritorno in Israele. Questo è il centro del problema perché la posta in gioco è l'identità dello Stato di Israele. Il numero di arabi che potranno tornare in Israele sarà deciso dal governo israeliano. "La scommessa è sulla possibilità di far coincidere queste due incognite; in altri termini, sull'ipotesi che il numero dei palestinesi che opteranno per il ritorno in Israele sia approssimativamente pari a quello accettato dagli Israeliani. Se infatti la prima cifra fosse superiore alla seconda, il diritto al ritorno affermato dal diritto internazionale e ripreso dall'accordo non sarebbe più realizzabile per tutti i palestinesi." *
Una scommessa quindi, ma è una scommessa che vale la pena di tentare.
Rimane sullo sfondo un altro problema: il recupero della identità del popolo palestinese. Oltre, infatti, alle sofferenze di popolo oppresso e scacciato, "vittima delle vittime", i palestinesi in questi anni, per dirla con le parole di Edward Said, "sono stati costretti ad assistere alla trasformazione della loro patria in uno Stato occidentale". E non è detto che questa trasformazione sia proprio quella che desidera la maggioranza dei palestinesi. E, probabilmente, non la vuole neanche la minoranza colta più occidentalizzata. Ancora una volta quindi la colonizzazione culturale, per di più imposta da uno Stato che si percepisce occupante, potrebbe erigere nuove barriere difficili da eliminare.

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* Citazioni tratte da Le Monde Diplomatique, Gennaio 2004.

 

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