Pubblicato su Politica Domani Num 47 - Maggio 2005

Essere volontario in carcere
Esperienze di solidarietà

"Se accendi una lanterna ad un'altra persona, la sua luce illuminerà anche il tuo cammino, così ciò che hai dato a un altro diventerà il tuo stesso nutrimento".
Nichiren Daishonin, monaco buddista (1222-1289)

di Gabriella Mezzetti
(Associazione Volare)

"Forse Gesù ha messo volutamente in fondo al brano delle beatitudini ricordate nel Vangelo di Matteo (25,36) "ero carcerato e siete venuti a trovarmi", perché in carcere ci può essere chi è affamato, assetato, nudo, straniero, malato, solo. Ci possono essere tutti." Così Fratel Antonio, missionario laico volontario in un carcere del Burundi in Africa, termina una sua lettera, nella quale dice anche: "E adesso sono qui tra loro e questi miei fratelli si sono impossessati del mio cuore. Voglio loro bene, sono dei carissimi figli di Dio. Mi commuovono quando mi portano una lettera per la loro famiglia che non vedono da anni. Mi fanno tenerezza i condannati a morte quando li vedo sferruzzare per fare i golfini per i bambini che poi porto nei centri di sanità. Sono contento nel cuore e spero di poter usare così della mia vita sino alla fine." C'è qui, in questa sua lunga lettera, tutta la profondità di quest'uomo gracile, ucciso pochi mesi dopo da giovani sbandati, molto simili ai tanti che lui aveva aiutato a Butetere o visitato in carcere.
Se noi volontari, che da alcuni anni varchiamo i cancelli del carcere di Velletri, viviamo situazioni enormemente distanti da quelle vissute da Fratel Antonio, siamo però comunque coinvolti da "nostri fratelli che si sono impossessati dei nostri cuori". È quanto accade a chiunque sperimenta il rumore di cancelli che si chiudono alle sue spalle, sia pure per poche ore.
L'esperienza più incredibile e imprevista che si può vivere in un carcere, è quella d'imbattersi proprio lì in Gesù rinchiuso da sbarre, da blindati. È proprio Lui, che ti chiede qualcosa. Qualunque cosa. Di tutto. Amicizia compresa. Inverosimile. Eppure che sia Lui, paradossalmente, lo capiamo dall'innocenza dello sguardo mite. Il resto possono essere abiti dimessi, piedi seminudi d'inverno o con scarpe pesanti d'estate. Una barba incolta. Consapevoli di essere circondati da situazioni e storie drammatiche, di devianze d'ogni genere, rimaniamo lì ad ascoltare. È come quando si entra in un ospedale e ci si accosta a tanti dolori e malattie. Si sta lì, cercando di dare sollievo, conforto, compagnia.
Una struttura complessa, quella del carcere: il direttore, il comandante, il cappellano, gli educatori, gli amministrativi, gli psicologi, i medici, gli infermieri, il personale di sorveglianza, gli addetti alle varie manutenzioni, i volontari. Un piccolo-grande equipaggio perché, in fin dei conti, per comune definizione "ogni carcere è una nave a sé", sempre in alto mare e quindi soggetta a marosi, bonacce, tempeste che causano anche naufragi.
Prima di varcare i cancelli, è forte l'esigenza della preghiera. Ci sostiene molto. Soprattutto quando si ha la sensazione di entrare "nell'anticamera dell'inferno". Definizione, questa, di carcere su cui concorda soprattutto chi ci vive ventiquattro ore su ventiquattro, per mesi, per anni. Anche se sono sufficienti poche ore per farne l'esperienza. Bastano però pochi doni, della biancheria nuova di magazzino, scarpe, medicinali, occhiali, buona stampa, piccoli aiuti in denaro, un po' di tutto, per assistere ai miracoli. In quei ringraziamenti, più o meno visibili, c'è sempre l'eco di una richiesta di perdono. Un vero miracolo della Misericordia Divina, che passa, magari, attraverso un paio di calze, un francobollo, una busta da lettere, un sorriso.
"Questo è un luogo sacro perché luogo di dolore", disse un detenuto invitando una suora a togliersi i sandali. È vero, è un luogo di redenzione perché spinge anche noi a chiedere perdono per le nostre colpe. Giovanni Paolo II nel "Giubileo nelle carceri" ha invocato dai responsabili degli Stati "un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione, che non mancherebbe di suscitare echi favorevoli nei loro animi, incoraggiandoli nell'impegno del pentimento per il male fatto e sollecitandone il personale ravvedimento. (...) Il Risorto, il quale entrò a porte chiuse nel Cenacolo, possa entrare in tutte le carceri. Cristo cerca l'incontro con ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi."
Camminiamo lungo il corridoio di una sezione. Da una delle ventisei celle sporge un braccio sventolando un foglio, mentre dall'interno una voce ci chiama. Lo prendiamo. Leggiamo: "Dio è fra noi. Non chiedetemi dove. È robusto come le montagne, o leggero come una piuma. L'importante è credere che Lui è fra noi. Enzo - Velletri 5 giugno 1996, ore 11:30."

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* Volontari dell'Associazione "Volare"

 

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Num 47 Maggio 2005 | politicadomani.it